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Tutti i numeri del sesso
Sex and Death 101, Usa, 2007
di Daniel Waters, con Simon Baker, Winona Ryder, Julie Bowen, Frances Fisher

La doppia vita di Winona
recensione di Giulio Frafuso



Come è accaduto per una stella ben più fulgida come quella di Sharon Stone, anche un’attrice promettente come era Winona Ryder dimostra ancora una volta di aver avuto una sua stagione folgorante - a cavallo tra la fine degli anni ’80 e la metà del decennio successivo - e di essersi poi completamente persa a causa di troppe scelte artistiche sbagliate e di un talento col segno di poi forse sopravvalutato. Questo suo nuovo Tutti i numeri del sesso arriva puntuale a valorizzare questa ipotesi, se ancora ci fosse bisogno di un’ulteriore conferma. Esempio bislacco di commedia indipendente che vorrebbe muoversi ai limiti dello scandaloso per dimostrarne invece la normalità e smascherare al contempo il bigottismo che lo circonda, il film rimane invece ad un livello di analisi contestuale del tutto superficiale. La storia, liberamente ispirata ad un libro di culto di origine islandese uscito qualche anno fa, viene teletrasportata in un’America da cartolina tutta imbellettata e quindi inerme come il suo protagonista, un Simon Baker che si dimostra ancora una volta capace di una sconcertante penuria di espressioni facciali. Da parte sua. La dolce Winona continua ad intestardirsi in parti che contengono l’ambiguità di un adolescenziale, per di più recitandole con il trasporto verificato soltanto dai suoi occhioni che continuano a sgranarsi sempre di più.
L’operazione non è comunque del tutto fallita: ci sono qua e la un paio di scene che divertono, anche se ad essere sinceri più attraverso i mezzi della commedia ridanciana che con la finezza e la sottigliezza del lavoro più intelligente; e poi l’avvenenza estetica di almeno un paio di modelle che fungono da disinibite comprimarie riesce a colpire nel segno. Tutti i numeri del sesso rimane però costretto a muoversi su un livello contenutistico decisamente basso, a ciò anche per merito/colpa del regista Daniel Waters, che preferisce sempre il momento di messa in scena laccata piuttosto che lavorare in profondità, tirando magari fuori le contraddizioni e la disperazione delle situazioni che sta raccontando. Il risultato finale è una pellicola “morbida”, scentrata, che non riesce mai a coniugare l’amore e la morte del titolo originale in un connubio che scateni una qualsiasi emozione. L’interesse, quando fa sporadicamente capolino, si limita a dirigersi verso la parte più esterna della mente dello spettatore, mentre il soggetto alla base del film avrebbe potuto scandagliare recessi ben più reconditi della psiche e dell’inconscio umani.