Tutti gli uomini del re

La corruzione del remake
di Maurizio Di Lucchio

 
  All the King’s Men, Usa, 2006
di Steven Zaillian, con Sean Penn, Jude Law, Kate Winslet, James Gandolfini, Anthony Hopkins, Mark Ruffalo, Patricia Clarkson


Vogliamo fare i remake? Ok, facciamoli, purché abbiano senso. Un remake può avere senso sostanzialmente in due casi: a) quando è il brillante rifacimento di un’opera mediocre di qualche tempo fa ; b) quando è la rilettura in chiave personale e originale di un film già significativo ai suoi tempi. Tutti gli uomini del re non rientra in nessuna delle due categorie. Già, si tratta del remake di un film - Tutti gli uomini del re del 1949, diretto da Robert Rossen - che all’epoca ebbe uno strepitoso successo di pubblico e critica (tre premi Oscar, cinque Golden Globes e un Leone d’Oro sfiorato per un nonnulla) anche in virtù dell’ottimo romanzo di Robert Penn Warren da cui è stata tratta la sceneggiatura. L’unica possibilità era quindi reinterpretare secondo nuovi canoni e nuove soluzioni visive un’opera a cui probabilmente non si può chiedere di più, visto che è ancora adesso uno dei più brillanti trattati cinematografici sulla corruttibilità del genere umano. E invece, siccome al peggio non c’è mai fine, questo simpatico Steven Zaillian, conosciuto dai più esclusivamente per il fatto di essere il co-sceneggiatore di Schindler’s list e di Gangs of New York e quasi sconosciuto in qualità di regista, ci combina il pasticcio e ripropone, in maniera bolsa e schematica, tutti gli elementi del film originale senza aggiungere niente di nuovo e appesantendolo con un’atmosfera noir fuori luogo e con una pletora di artifici di retorica cinematografica privi di utilità.
La storia è quella di Willie Stark (uno Sean Penn che recita divinamente e che ormai farebbe notizia solo se facesse un’interpretazione da cani), un arzillo “buzzurro” della Louisiana che riesce, attraverso una serie di travolgenti filippiche di piazza contro la corruzione dilagante nell’amministrazione pubblica, a farsi eleggere governatore del suo Stato facendo presa sulle classi popolari. Arrivato al vertice, Stark non rinuncia a contornarsi di scagnozzi di malaffare e comincia a fare il diavolo a quattro pur di assicurarsi il potere per sempre. Per scongiurare la mozione di “impeachment” che gli è rivolta contro dai consiglieri della Louisiana, Stark ha il coraggio di pagare un giornalista per indagare sul passato del giudice che dovrebbe esprimersi sulla sua moralità, non tenendo conto che il giudice in questione è il padre adottivo del reporter alle sue dipendenze. Nonostante scenda a migliaia di sporchi compromessi, il governatore riesce davvero a realizzare le opere pubbliche (strade, scuole, istituti) che ha promesso ai “buzzurri” che lo hanno votato dimostrando più o meno indirettamente la teoria machiavelliana del fine che giustifica i mezzi e gettando un’invidiabile aura di complessità sul personaggio protagonista. Visto così, il film fa riflettere, e molto. Ahimè, la messa in scena manda a quel celebre paese ogni buon proposito dell’autore. Il narratore è, infatti, il giornalista “dalla schiena dritta” Jack Burden (Jude Law) che lavora per conto di Stark. Nel film, Jack ha la cattiva abitudine di raccontare per filo e per segno i percorsi morali ed esistenziali di sé stesso e del governatore attraverso una voce fuori campo iper-didascalica e onnipresente che il più delle volte diventa irritante e che solo in alcuni casi riesce ad arricchire il tessuto di conflitto interiore che le immagini riescono già autonomamente a svelare.
Ma non finisce qui: le incongruenze sono molte di più. Ad esempio, risulta insopportabile vedere che ogni discorso pubblico del buon Willie Stark viene ripreso al ralenti ed è sottolineato da una musica epica e solenne che ammanta di ridicolo il tutto. All’inizio può anche fare effetto, ma con il passare dei comizi (che quanto meno hanno il pregio di essere sempre ambientati in luoghi particolari, quasi sottratti al fluire del tempo) e la crescita della corruttibilità del personaggio, gli artifici retorici perdono completamente di senso fino a sfociare nella sciatteria dello sceneggiatore prestato alla regia. E infine, l’amour… Come in ogni storia che si rispetti, nel film c’è un sub-plot dedicato alle relazioni sentimentali. Quella più intensa si consuma tra il giornalista e una sua amica d’infanzia, interpretata da Kate Winslet. E’un amore puro, innocente, tanto pre-adolescenziale che il clou della relazione consiste nel fatto che il bel Jude Law un giorno “risparmia” la verginità alla sua amica del cuore pur di preservarla dalla corruzione del mondo dei grandi. Discorso interessante, tanto più perché si collega al tema del film in maniera molto fine. Anche qui, però, si riconosce la mano del regista incapace. A un certo punto della narrazione, si scopre che la dolce Kate Winslet ha una relazione nascosta e forse “a pagamento” proprio con il governatore Stark in cambio di non si sa bene cosa (la costruzione di un istituto per l’infanzia? La nomina della Winslet a direttrice dell’istituto? Dovremmo rivedere il film più volte per comprenderlo…). In altre parole, pur di spargere nel film un elemento pruriginoso per gli spettatori come le “corna”, l’autore si prende il lusso di snaturare e sfilacciare senza evidente motivo l’unica caratteristica del film che pareva coraggiosa e differiva dal film del 1949 per il modo in cui era stata problematizzata.
Domanda banale, ma lecita, al produttore del film: Signor Produttore, ma se Lei è così facoltoso da poter permettersi di mettere a libro paga in un colpo solo Sean Penn, Jude Law, Anthony Hopkins, Kate Winslet, Mark Ruffalo, James Gandolfini e Patricia Clarkson, davvero non poteva trovare sul mercato un regista che sapesse il fatto suo e proponesse una storia un tantino più avvincente?