Transamerica

Io sono una donna
di Ferdinando Cotugno

 
  id., USA, 2005
di Duncan Tucker, con Felicity Huffman, Kevin Zegers, Fionnula Flanagan.


Transamerica racconta gli ultimi giorni da uomo di Bree, un transessuale in procinto di diventare ciò che davvero è: una donna. Agli ultimi giorni di questo percorso di mutazione - ormonale, sessuale, estetica - si sovrappone un forzato viaggio fisico, Los Angeles - New York - Los Angeles, insieme ad un figlio che improvvisamente è apparso nella sua vita, con una semplice telefonata da un carcere nel quale è rinchiuso. Così. dopo una vita passata ad allineare il corpo all'anima, Bree passa gli ultimi giorni di questo lungo e faticoso percorso a sovrapporre al suo corpo e alla sua anima l'immenso tappeto della sua nazione, un ventre molle fatto di motel, deserti, strade dritte e piatte delle quali sembra impossibile immaginare in un solo pensiero l'inizio e la fine. Questo il prezioso esperimento narrativo del regista (e sceneggiatore) Duncan Tucker: prendere un essere umano nel punto più complesso ed estremo della sua mutazione, in cui tutto, dall'identità al nome al corpo è cangiante, e metterlo a confronto con il proprio passato, con il proprio futuro e con la propria nazione.

La "disforia di genere" è riconosciuta dall'Associazione Psichiatri Americani come malattia mentale. E' il primo punto fermo della storia, sancito nell'ennesimo estenuante colloquio di Bree con l'ultimo di una serie di medici ai quali strappare il permesso di esistere secondo la propria verità: io sono una donna. Tucker ha dichiarato che Transamerica non è un film sulla transessualità.” Probabilmente ha ragione, ma il suo lavoro è sicuramente un documento importante su questa condizione. Il primo dato è la solitudine. Bree non ha nessuno, ha solo se stessa. Nella titanica sfida al destino che l'ha fatta nascere nel corpo sbagliato Bree ha una sola alleata: una psicologa che, come Virgilio, in questa discesa all'inferno la prende per mano, con premura e durezza. Il potere di costei è una firma  la chiave magica e ultima affinché Bree possa finalmente dire: io sono una donna. Così, quando arriva la rivelazione che l'essere stato uomo di Bree non è passato inosservato su questa terra, ma ha addirittura creato un'altra vita, un figlio, la costringe a prendere un aereo, andare a New York e affrontare il proprio passato, che è ancora - almeno per qualche giorno - anche il suo presente. Non ci sono scorciatoie in Transamerica.

Il ragazzino si chiama Toby , e sembra uscito da un romanzo di J.T. Leroy. Vende il proprio corpo per le strade di New York per pagarsi un letto sudicio, e sogni chimici di polvere bianca. E' forse lui la chiave per capire questo film. Un presente da ragazzo di vita, un passato da bambino molestato, un futuro da attore porno. In un'America che - cinematograficamente e non solo - è alla ricerca della propria sessualità, e che la sta scoprendo meno salda e regolare di quanto probabilmente credeva, Transamerica ne offre un'immagine complessa e disperata, in cui nessuno è ciò sembra, o desidera che dovrebbe desiderare. Il viaggio di Bree e Toby riavvolge il nastro della vita di Bree, e da un'improvvisa accelerata a quello di Toby. Il primo crede che la strana donna che è venuta a pagargli la cauzione, che ha comprato una macchina e lo sta portando nella California dei suoi sogni, sia una specie di angelo fondamentalista cristiano mandato dal cielo per redimerlo, equivoco che Bree non fa nulla per chiarire. Toby sogna che il misterioso padre che non ha mai conosciuto sia metà indiano, che viva a Hollywood, e sia famoso e abbia una piscina, non immagina che è invece seduto al suo fianco in macchina, e che tra poco sarà una donna a tutti gli effetti. Sulla strada Bree e Toby incontrano indiani solitari, congreghe di transessuali, sciamani del peyote, camionisti arrapati. Ognuno prende o toglie qualcosa: la macchina, un pompino, dei soldi, un letto caldo, un cappello da guerriero. Fino alla tappa finale, l'inevitabile alfa e omega della cultura americana, la famiglia, che è la famiglia di Bree, ma incidentalmente anche quella di Toby. Ma che contemporaneamente non è né la famiglia di Bree - che è per loro il mostro che ha inghiottito il rimpianto figlio biologicamente maschio Stanley - né quella di Toby- che è solo uno sbandato che porta la stessa maglietta da una settimana. Ma la casa con giardino (e piscina) è il frullatore definitivo, il mostro finale del videogioco, se esci vivo da lì hai vinto, la vita diventa finalmente tua. Così, il periodo che i due trascorrono con i genitori e la sorella di Bree, o di Stanley, è il cuore del film, il momento culminante della storia, del bildungsroman di Bree, che riesce a imporre la sua verità, uscendone viva e forte, verso Los Angeles e verso la sospirata operazione. Io sono una donna.

Film come Transamerica funzionano se c'è qualcuno che se li carica sulle spalle, che li calza come un vestito e li rende vivi. Felicity Huffman è michelangiolesca nella sua interpretazione di Bree. Dentro il suo corpo trova l'uomo, e dentro quell'uomo trova un'altra donna. Si immerge nel desiderio di essere ciò che fuori dal set è davvero, infonde la lacerazione nella verità che poteva apparirle più scontata: io sono una donna. Lavorare sulla forma del corpo è un rito di passaggio per gli attori, soprattutto americani. Sembra quasi che non si possano dire davvero tali se non prendono o perdono peso, se non deturpano i propri lineamenti, se non depurano di ogni grazia i propri lineamenti. Ma il lavoro di Felicity Huffman è - se possibile - più complesso di quello di Robert De Niro, Christian Bale o Charlize Theron. Qualcosa che nessun make-up artist poteva realizzare, e che non poteva essere raggiunto nemmeno grazie ad una dieta folle. Essere non uno, ma due corpi diversi dal proprio, chiusi uno dentro l'altro come una matrioska, è una condizione fisica, emotiva, tattile, estetica che richiede uno sforzo titanico, totale, che può dirsi riuscito oltre ogni aspettativa, perchè Bree ha invaso tutto di Felicity, dalla postura innaturale fino all'incredibile trasformazione vocale. E che ha dato alla casalinga disperata Huffman la patente di attrice di altissimo livello. Non solo per il Golden Globe vinto, per la strada aperta verso l'Oscar, ma anche perché semplicemente, senza di lei, il film non esisterebbe.

Transamerica è un film necessario. Pensato, girato e soprattutto interpretato con il cuore e con le viscere. Non è un perfetto congegno da script doctor, non ha in serbo rivoluzioni della narrazione o dello sguardo. La struttura è quella da road movie tradizionale. Da una costa all'altra è una linea dritta e prevedibile. La sintesi visiva è efficace senza essere memorabile, quella narrativa è di srotola senza autentici colpi di scena. La confezione è dunque buona, tale da permettere a Duncan Tucker, premiato cortista, di passare l'esame da regista, anche se non a pieni voti. Ma è l'urgenza di fondo, declinata sull'interpretazione perfetta della Huffman, a permettere al film il salto di qualità. Commovente, sincero, toccante. Cinema che accetta la sua missione: essere verità ventiquattro volte al secondo.