the Terminal

Il mito del buon selvaggio
di Stefano Finesi


Venezia 61 - 2004

backtrack: the Terminal

  id., USA, 2004
di Steven Spielberg, con Tom Hanks, Catherine Zeta-Jones, Stanley Tucci, Diego Luna


L’aeroporto è uno spazio di transizione che pure è determinato ad offrirsi come universo autosufficiente, un luogo di arrivi e partenze paradossalmente totalizzante, convesso e accogliente all’ennesima potenza malgrado (o proprio a causa della) precarietà della sua natura. Spielberg affronta questo spazio con l’innegabile capacità di coglierne tutte le sfumature possibili, di metterne a frutto le ambiguità con un’eleganza semantica e narrativa che ha pochi rivali, grazie alla quale si svolge sotto i nostri occhi, come la brillante risoluzione di un calcolo matematico, l’equazione tra aeroporto e set, tra l’aeroporto e la storia di un uomo e, naturalmente, tra l’aeroporto e l’America: un’America ancora e più che mai terra di opportunità e di passaggio, crocevia di scambi e culture, ma più che mai in passato irreggimentata e avidamente controllata, con una fluidità discreta che pure tradisce un nervosismo in bilico sopra l’isteria.
The Terminal dovrebbe quindi suonare come l’aggiornamento dell’epopea del sogno americano, in cui i miti del self made man (un carpentiere, se bravo, può comprarsi un vestito di Hugo Boss…), della solidarietà sociale, della frontiera (anche se stavolta, semplicemente, la porta girevole di un aeroporto) vengono riveduti e corretti ai tempi del “Patriot Act”: il fatto è che tale aggiornamento, malgrado l’evidenza di una certa polemica sotterranea, non riesce a porsi come realmente problematico, non può costringere (ma cosa potrebbe?) il monumentale ottimismo di Spielberg a cedere di un passo.
A tagliare le gambe al film, però, e spiace constatarlo, è soprattutto un razzismo di fondo, a prima vista insospettabile, data la lucentezza dell’ingranaggio narrativo, e tanto più fastidioso in quanto seppellito nella melassa della tolleranza globale: se l’equivalenza tra America e terminal funziona infatti anche a livello di prospettiva ideologica, l’America e il suo regista di bandiera, proprio mentre si pongono come realtà dinamiche e concettualmente aperte, non possono fare a meno di chiudersi in se stessi nell’irrinunciabile consapevolezza della propria autosufficienza. Insomma: allo straniero si può al massimo concedere la qualifica di buon selvaggio. Viktor-Hanks si muove sul set come uno spaesato scimmione di 2001: Odissea nello spazio, abbagliato dal contatto con una civiltà superiore, mentre le immagini della fantasiosa Krakozhia, rimandate dagli schermi dei televisori, suggeriscono in pratica l’idea di un paese di pastori analfabeti. Nello stesso momento in cui Spielberg tesse amabilmente la tela del melting pot e l’elogio politicamente corretto dell’ingenuo di buon cuore, sulla carta superiore al cinismo nevrotico dell’americano medio, affastella luoghi comuni il cui reale funzionamento paternalistico è ormai fin troppo scoperto: la prova definitiva arriva con la rivelazione del contenuto della misteriosa scatola di latta, tributo finale alla colonizzazione culturale statunitense, che, anche se nella forma elevata e splendente del jazz, in forza della sua inattaccabilità sarebbe penetrata fin nelle sperdute lande di Krakozhia, condizionando per intero la vita di un padre e di un figlio. La perseveranza di Viktor diventa asservimento patetico, la sua integrità un omaggio sproporzionato alla terra delle libertà, che anche il suo ritorno a casa nel finale non svilisce minimamente.
L’ossessione burocratica e ottusa del personaggio di Stanley Tucci è in fondo solo un paravento: proprio The Terminal dimostra che la vera, asfissiante chiusura degli Stati Uniti, quella paura mista a disprezzo per il resto del mondo, hanno radici così profonde da poter essere contrabbandate per il loro esatto opposto.