Tattoo

Radice di Seven
di Adriano Ercolani

 
  Tattoo, Germania, 2002
di Robert Schwentke, con August Diehl, Christian Redl, Nadeshda Brennicke

I primi trenta secondi del film sono davvero folgoranti: campi lunghi su una strada ampia ed immersa nella luce gelida dei lampioni; una ragazza vaga nuda e disperata in cerca di aiuto; quando la m.d.p. la inquadra di spalle, vediamo che la sua schiena è stata scarnificata. Poi un pullman la investe e si schianta in un fracasso di fiamme e lamiere. Intenso, brutale, ritmato, questo incipit ci aveva fatto sperare in un thriller ad alto contenuto adrenalinico e spettacolare. Dopo la scena d’apertura, tutto diventa invece schematico, retorico, approssimativo nei dettagli, e banale nello sviluppo della storia. Il referente immediato e più ovvio di questo Tattoo non può che essere Seven (id, 1995), il capolavoro di David Fincher interpretato da Brad Pitt, Morgan Freeman e Gwyneth Paltrow. Come quello infatti il film di Robert Schwentke punta sull’accuratezza della messa in scena, tentando di renderla allo stesso tempo precisa ed astratta; punta su una confezione accattivante e preziosa, e sotto questo punto di vista la fotografia di Jan Fehse, le musiche di Martin Todsharow e soprattutto il montaggio di Peter Przygodda – collaboratore abituale di Wim Wenders – riescono a catturare lo spettatore con la loro efficacia. Purtroppo però per lui, Schwentke non è Fincher: il suo senso dell’immagine e del ritmo non riescono ad affascinare lo spettatore per tutta la durata della pellicola, ed il film allora spesso diventa una noiosa ripetizione di cose già viste. Il difetto maggiore di Tattoo sta però nella sceneggiatura assolutamente priva di originalità, dove tutte le situazioni e le svolte narrative sono presto prevedibili, come ad esempio la scoperta dell’assassino. Il regista-sceneggiatore a nostro avviso non è riuscito a scostarsi dal modello del film di Fincher, ed ha finito allora per ricalcarne stancamente modelli e sviluppo della trama, dimenticando che la grande forza di quel film erano anche la profondità e la pienezza di tutti i personaggi in scena, compreso il maniaco John Doe-Kevin Spacey. In Tattoo invece le cose accadono quasi per caso, le indagini proseguono senza una logica precisa, ed i personaggi principali non hanno un vero e proprio spessore psicologico. Rimane, certo, la buona confezione ed un certo gusto macabro nel mettere in scena le efferatezze; forse allora sarebbe stato necessario guardare questo film tentando di dimenticarsi dell’altro, e senza badare troppo alla trama...