Stay – Nel labirinto della mente

Mente a sorpresa
di Ferdinando Cotugno

 
  id., USA, 2005
di Marc Forster, con Ewan McGregor, Naomi Watts, Ryan Gosling.


Ci sono film che mettono a dura prova la pazienza degli spettatori. Stay di Marc Forster fa decisamente parte di questa categoria. Peccato, perché sulla carta il film schierava gente avvezza al buon cinema. Forster, con Monster’s Ball e Neverland, pur non conquistando consenso unanime, era stato capace di costruirsi uno zoccolo duro di estimatori, oltre a interessanti riscontri al botteghino. La sceneggiatura è opera di David Benioff, che aveva esordito scrivendo addirittura la 25° Ora, e che per l’occasione ha rispolverato il suo primo scritto. Il cast sfodera attori di lotta e di governo come Naomi Watts, Ewan McGregor e l’interessante Ryan Gosling. Ma le partite, si sa, non si vincono sulla carta, ma sul campo. E se l’obiettivo era di coinvolgere lo spettatore in un raffinato gioco di specchi incastrato in una sceneggiatura ad orologeria capace di blandire con gli strumenti del thriller, ma anche di giocare con temi come memoria, identità e morte, si può tranquillamente dire che tutto ciò rimane sulla proverbiale carta, e nella fervida fantasia dei redattori di cartelle stampa.

Raccontare film come Stay è complesso, perché si rischia di rovinare l’effetto “uovo con la sorpresa dentro” che regge tutto il gioco della sceneggiatura. Anche se – ed ecco svelato invece il difetto primario del film – si tratta di un gioco al quale gli spettatori non sono invitati, né del quale sono tenuti a conoscere  le regole o a parteciparvi a qualsiasi titolo. La sorpresa finale, il cuore del senso stesso di Stay, è infatti attaccata alla storia da una serie di indizi incoerenti, sconnessi, disseminati ad arte per – si perdoni il francesismo – non far capire un cazzo al malcapitato fruitore. Stay si apre con la soggettiva di un incidente automobilistico, prima di farci conoscere i tre protagonisti. Uno studente di raro pallore, di nome Henry Letham (Gosling), annuncia allo psichiatra della sua università, tale Sam Foster, la sua intenzione di suicidarsi sabato sera. Foster prende particolarmente a cuore il caso non solo per passione professionale o generica filantropia, ma anche perché legato ad una donna – una collega di università – che ha già tentato l’insano gesto e che vive con l’aria di chi potrebbe riprovarci alla prima tartina che cade dal lato imburrato. Come ne la 25° Ora, la sceneggiatura è sorretta dall’effetto time is running out, con i personaggi coinvolti in vari tentativi di evitare o affrontare l’inevitabile, che sia esso la morte, come in questo caso, o sette anni di carcere, come nel film di Spike Lee. Ma se in quest’ultimo film la compattezza della scrittura e la sicurezza della regia si esaltavano a vicenda, in Stay accade l’esatto contrario, con Forster e Benioff impegnati ad esaltare i difetti l’uno dell’altro.

Accade, infatti, che lo psicologo si impegni seriamente nel tentativo di salvare la vita dello studente, che appare invece molto riottoso e molto determinato nel suo intento. Ma, col passare delle ore e dei giorni, il senso di realtà del personaggio di Ewan McGregor comincia a sfaldarsi, il mondo sembra carico di presagi che capovolgono tempo e spazio, mentre la data della morte annunciata si avvicina. Parallelamente a questa discesa nell’irrazionale, la regia di Forster aumenta progressivamente il proprio carico di senso. La ricerca sull’immagine, talvolta pregevole e in qualche momento anche suggestiva, non fa che evidenziare, però,  quanto la scrittura del film sia debole e farraginosa. D’altra parte, il tentativo stesso di cogliere qualcosa di intelligibile nella storia – che chiaramente fa intendere di avere in serbo la sorpresona finale – rende particolarmente fine a se stesso, e addirittura molesto, lo sfoggio di mezzi visivi e di indubbia perizia cinematografica di Forster. Da salvare, in Stay, ci sono le interpretazioni di Naomi Watts, che dà al suo personaggio una miscela di tremore paura e consapevolezza a volte da brividi, e di Ryan Gosling, che mette sapientemente il suo pallore e la sua aria borderline al servizio dell’aspirante suicida Letham. Alla fine, ma è un segreto, è molto interessante la soluzione finale dell’enigma, che riempie gli ultimi cinque minuti del film. Un’idea suggestiva, che forse avrebbe meritato uno sviluppo diverso. E che non riesce a salvare un film pretenzioso e artefatto.