la Stanza del figlio

Io non sono più un autarchico
di Adriano Ercolani

 
  Italia, 2001
di Nanni Moretti, con Nanni Moretti, Laura Morante, Silvio Orlando, Jasmine Trinca, Giuseppe Sanfelice, Claudia Della Seta, Stefano Accorsi, Toni Bertorelli


Un film di Moretti, non morettiano

Dopo il primo quarto d'ora, dobbiamo confessare che abbiamo iniziato a preoccuparci. Situazioni, battute, dialoghi, ci hanno riportato direttamente indietro di vent'anni, a Michele Apicella che sguazza nella nutella senza capire niente di se stesso e della vita. Non che ci sarebbe poi dispiaciuto tanto, ma forse avremmo preferito vederlo cambiare, provare altre strade, nuovi territori della narrazione e della messa in scena.
Poi il figlio di Giovanni (Nanni) muore, ed ecco allora che il film si fa tragedia vera, senza fronzoli né narcisismi, senza Apicella, ma con un padre, una madre ed una figlia che non riescono a liberarsi dal dolore della perdita. Tutti hanno perso qualcosa, soprattutto lui, che non riesce più ad essere di aiuto e di conforto a nessuno: non alla moglie, non alla figlia, né tanto meno ai sui pazienti, che abbandona definendo così la sua sconfitta di fronte all'accettazione della morte. Un film dunque con una sua precisa autonomia, anche rispetto al regista di Bianca e la Messa è finita; una pellicola la cui sceneggiatura avrebbe potuto essere girata da chiunque: ed ecco che arriva invece Moretti, con il suo tocco personalissimo, geometrico, limpido, lucidissimo. Se ne sono andati dunque i suoi personaggi, ma è rimasto l'autore, capace di raccontare senza dialoghi, senza movimenti di macchina, senza ostentare le sue capacità, che vengono fuori dal saper aspettare gli attori, saper dargli lo spazio necessario oltre che quello consentito dai personaggi; e qui il cineasta è decisamente cresciuto, tanto che fa' di Laura Morante il vero fulcro emotivo della pellicola, regalandole uno spazio da protagonista mai concesso prima alle altre figure femminili. Merito sicuramente della collaborazione con gli altri due sceneggiatori Linda Ferri e Heidrun Schleef, ma merito anche a colui che ha saputo rinnovarsi e rimanere sempre sé stesso, anche a costo di deludere o disturbare i fans più accaniti. Ci mancheranno gli Apicella ed i Don Giulio, ma siamo contenti di aver ri-trovato, finalmente, Nanni Moretti, che stavolta non si è nascosto dietro un personaggio fittizio che aveva il suo stesso nome, come in Caro Diario e Aprile.

Una storia, e quasi non ce la aspettavamo più...

Dopo appunto gli ultimi due diari di bordo, divertenti ed ispirati quanto si vuole, ma comunque sgangherati dal punto di vista narrativo, narcisistici fino alla misoginia, meno sinceri di quando Moretti si calava nei suoi personaggi e ci raccontava veramente sé stesso, ecco che invece con la Stanza del Figlio ci arriva, ormai quasi insperata, una sceneggiatura limpida, perfettamente strutturata nella sua geometricità, coerente e precisa nella descrizione psicologica ed emotiva dei personaggi. Lo scheletro della storia viene scarnificato fino al limite: ne rimane uno script attento alle situazioni, alle motivazioni psicologiche dei protagonisti; è vero che dopo la prima svolta narrativa la storia non si evolve quasi più, a parte la comparsa dell'amica del figlio scomparso; ma ciò che si evolve sono i personaggi, i quali si arricchiscono di molte sfaccettature, si caricano di un dolore represso ed inespresso fino in fondo, fino cioè al finale liberatorio, bellissimo e veramente toccante, aperto ma non vago. Il film termina su di una spiaggia, confine aperto tra Italia e Francia, tra terra e mare, tra dolore e accettazione, soprattutto tra passato e futuro; questo stesso confine dunque non è soltanto il punto geografico in cui si interrompe il viaggio della famiglia, ma anche il luogo simbolico che viene superato: hanno accompagnato la ragazza a prendere il pullman che la porterà in giro per la Francia, e quando la lasciano andare, mandano con lei anche il fantasma del figlio scomparso. Doloroso, ma necessario. Come questo film.

Io non sono più un autarchico
A differenza degli altri suoi lavori, Moretti questa volta condivide, o tenta di condividere, lo spazio scenico con gli altri membri del nucleo familiare; ecco allora che tutti hanno un loro mondo, una loro autonomia di personaggi rispetto al protagonista una loro esistenza concreta e precisa. Giovanni ha una moglie che lavora, una donna in carriera, e dei figli che studiano ed hanno interessi diversi dal padre; fanno sport, ma non sono eccessivamente competitivi: lui perde a tennis senza quasi "combattere" ( e fa' incazzare il padre, che per qualche istante torna a chiamarsi Michele...); lei gioca a basket, ma ascolta sempre il rumore della palla che sbatte sul parquet, e poi non gioca meglio per sfogare il dolore, ma picchia le avversarie; sembra quasi che sia perciò il genitore a (in)seguire i due ragazzi, quando vanno a giocare a tennis o a basket, li spia quando studiano (e stavolta non partecipa...), cerca di convincerli a passare più tempo insieme a lui. Forse proprio per questo il suo essere padre è tanto più credibile, in quanto premuroso, agitato, possessivo; sentimenti e modi di essere non soltanto del personaggio morettiano di turno, ma facilmente condivisibili da tutti, non solo da quelli che si rispecchiano nelle idiosincrasie dell'autore. Quando il giovane muore, la tragedia non accade soltanto a Giovanni, ma ad una famiglia, ed è davvero un bel passo avanti. Tornando alla scena finale, anche questa possiede in realtà una struttura "collettiva": anche se ognuno per proprio conto, tutti e tre vanno verso il mare e si liberano dei loro fantasmi; non a caso, nella scena precedente (lucidissima architettura narrativa e cinematografica) si sono ritrovati, proprio solo loro tre, a ridere ed a riunirsi come nucleo, appunto per poter poi continuare come enti autonomi ma solidali.

Andate pure in pace: ma la messa è davvero finita?

Tiriamo dunque le somme: dobbiamo, alla fine, chiudere i conti con quella parte di Moretti che faceva film "alla Moretti"? Dobbiamo chiudere con la nutella, con i parrocchiani che ballano in chiesa, con i licantropi? Michele ha smesso di vedere gente e fare cose? Probabilmente sì. Il Nanni nazionale ormai è padre, è più maturo (speriamo non invecchiato), non è più arrabbiato e fortemente problematico come nei suoi primi film; o meglio, ha cambiato il campo di indagine del suo cinema, lo ha ristretto e reso più intimista, forse perdendo quel senso di disagio e di anti-conciliatorio che ce lo ha fatto tanto amare. Poco importa. Tutti cambiano. Senza voler tornare ancora a parlare di quali e quanti siano stati i suoi cambiamenti, vogliamo chiudere salutando il suo nuovo discorso cinematografico come ennesima, consapevole prova di maturità di cineasta (dallo sceneggiatore al produttore, dall'attore al regista). E se ogni tanto, tra le righe dei suoi prossimi lavori, vedremo spuntare qua e là qualcosa che ci ricorderà un uomo strano, assurdo, che parlava di scarpe e "trend negativo", verseremo una lacrima di gioia ricordando fieri il tempo che fu. Grati sempre e comunque a chi ci ha fatto vedere come si può far cinema in Italia soprattutto con se stessi e con le proprie idee. E non è, non sarà mai, poco.