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Shooter
id., Usa, 2007
di Antoine Fuqua con Mark Wahlberg, Michael Peña, Danny Glover, Kate Mara

Rambo vs Resto del Mondo: un gran casino
recensione di Michele Alessandrelli



Questo film rappresenta una testimonianza attendibile dello stato di confusione totale in cui versa l’America contemporanea. Un’analisi attenta e più ampia di quella concessa dallo spazio di una recensione potrebbe estrarre uno per uno tutti gli ingredienti di questa crisi profonda. Malgrado ciò non voglio demordere. Quando parlo di crisi dell’America contemporanea, mi riferisco a quel singolare fenomeno che consiste nell’attaccamento maniacale agli aspetti che hanno formato e continuano a formare l’identità americana, senza preoccuparsi minimamente della coerenza e della compattezza della miscela che risulta da questo “pasticcio” di temi. Dal momento che non voglio snocciolare un elenco di tutte le salienze del film, mi limiterò a compendiare quello che a me è parso il cuore del lavoro di Fuqua. è un prodotto profondamente nostalgico, nostalgico e romantico. Rimpiange i tempi antichi, anche e soprattutto filmici, in cui l’eroe solitario era il sovrano degli eventi, il padrone assoluto della scena, il restauratore dell’ordine violato. Rimpiange la complicità tra spettatore e protagonista, quel non dubitare mai da parte del primo dell’integrità del secondo, mentre tutte le comparse e le ombre che gli danzano intorno nella storia non possono non dubitarne, per la parzialità e incompletezza del loro punto di vista. Sostanzialmente rimpiange un mondo ridotto a teatro, ben delimitato, conosciuto, prevedibile e controllabile. Di tutto questo il film di Fuqua è nostalgico. Il nostro regista però non è solo nostalgico, ma anche furbo e scafato, tanto che decide di cambiare la scena, di sostituire all’antico teatro, all’antico spazio a misura d’eroe, un nuovo palcoscenico, il mondo globalizzato, informatizzato e disincarnato privo di centro e periferia, in cui sorgono e dileguano identità inaffidabili, in cui gli eventi accadono ma sembrano scaturire da abissi senza memoria, da patti antichi non più rintracciabili, da intrecci non dipanabili. Le decisioni e le azioni degli individui in questo universo sono comprensibili solo come momenti di un progetto canceroso più ampio, impersonale, che si muove e sviluppa circolarmente e a spirale ed è volto unicamente ad accrescere il potere dei pochi che ce l’hanno. In effetti, il cancro e il suo decorso illustrano bene la logica interna ai conglomerati che hanno e generano potere in questo nuovo assetto mondiale. Il finalismo che questi nuclei di potere sprigionano è totalmente afinalistico e non potrebbe essere diversamente. Lungimiranza e consapevolezza di sé, che nutrono ogni autentico progetto orientato alla salvaguardia della vita propria e altrui, sono ormai impossibili perché gli individui, afflitti da miopia, sono attaccati unicamente al successo episodico delle loro azioni, non importa quanto grande ne sia la scala e la portata. È questo il mondo con cui Fuqua fa interagire il suo eroe, Bob Lee Swagger (Mark Wahlberg). Cecchino infallibile, solitario e romantico, usato e tradito dall’esercito cui tutto aveva dato, incapace di sottrarsi, per lealtà alla nazione e senso di giustizia, a un nuovo incarico che gli viene assegnato dopo tre anni dalla sua ultima missione, Bob Lee Swagger rappresenta l’antica ontologia dell’eroe, rocciosa e definitiva, contrapposta ai nuovi profili contemporanei dell’essere, liquidi, srdadicati e senza nome. Il risultato è un film caotico, a tratti avvincente e interessante, a tratti mortificante. La sensazione che si ha nel corso della visione e che continua a residuare anche a visione terminata è che Fuqua abbia appiccicato due mondi senza riuscire a garantire alcuna unità alla sua sintesi. Bob Lee Swagger sembra entrare e uscire da un universo in cui malgrado tutto riesce a muoversi come se esso desse punti di riferimento. Ecco perché ciò che è liquido e ineffabile, transitorio e senza nome (penso in particolare ai nemici di Swagger), viene costretto dalla maldestra operazione di saldatura del regista ad acquisire una consistenza identitaria rassicurante che non gli appartiene, che si fa pesantezza e grevità. Che dire in ultima analisi? Shooter è un film che fallisce nell’impianto ideologico che lo sostiene, l’uno contro tutti è una fantasia dell’infanzia che alimenta la speranza del bambino di impressionare nemici e amici, in altre parole la sua speranza di riconciliarsi con il mondo trasformandolo in un spazio riconoscibile, praticabile e sicuro, spazio alla coscienza adulta definitivamente precluso.