Secret window
Un Goblin nel cervello
di Giuliano Tomassacci

 
  id., Usa, 2003
di David Koepp, con Johnny Depp, John Turturro, Maria Bello, Timothy Hutton


Dura a morire la fertile sfida Stephen King-cinema. Ormai prossimo al trentennale, l’insaziabile appetito hollywoodiano nei confronti del testo kinghiano sembra rinvigorirsi strenuamente, alimentando con apparente disinvoltura una corrente assolutamente autonoma ormai autoritaria e riverita, inquilina di una fenditura nell’architettura dei generi apparentemente sempre meno disposta a rimarginarsi. In realtà, sembrerebbe che le pagine dell’autore ipoteticamente più incline alla traduzione cinematografica riemergano dal trattamento audiovisivo inevitabilmente indebolite e sfumate, avvalorando una casistica sempre più florida, certificante di come al testo più riuscito e promettente corrisponda, di contro, una riduzione per immagini quanto mai inadeguata ed approssimativa. E non serve certo scomodare il riferimento al Kubrick di Shining (sublime esplorazione nei meandri del terrore, ma incontrovertibile sabotaggio del romanzo di partenza) quale esemplificazione dei numerosi cineasti sedotti e beffati dall’ineluttabilità di questa equazione inversamente proporzionale responsabile, tra i molti, del thriller depalmiano più convenzionale (Carrie, Lo sguardo di Satana), del Carpenter meno viscerale (La zona morta) e del Singer più insicuro (L’allievo). Una statistica ben poco scalfita dalla minoranza dei risultati più soddisfacenti, in cima ai quali si attestano le riuscite riletture di Rob Reiner per Stand By Me e Misery non deve morire.
Armato del necessario coraggio e del dovuto masochismo, è stavolta David Koepp ad arrischiarsi con Secret Window verso l’impervio sentiero, dopo la deludente disfatta kasdiana nei meandri introspettivi di Dreamcatcher. Anche lui sceneggiatore di razza, Koepp consacra la sua terza regia ad un breve racconto dello scrittore del Maine, contenuto nella raccolta Quattro dopo mezzanotte, fasciando il protagonista Johnny Deep negli abiti sonnecchianti e pantofolai dello scrittore Mort Rainey, indaffarato, nella solitudine volontaria della sua residenza montanara, a far la spola tra divano e computer nell’attesa sfinente di un’ispirazione per il suo nuovo romanzo. Forse perché spontaneamente affine agli andamenti creativi nomadi ed autolesionistici di chi scrive per professione – o semplicemente perché acutissimo nell’organizzazione di una regia fortemente permeante – Koepp imposta con grande efficacia la geografia, fisica e mentale, a disposizione del protagonista, rarefatto negli ambienti della propria abitazione e sospeso nelle crepe oniriche dei frequenti stati di assopimento. Ad interromperlo, costringendolo a ripiombare bruscamente sul pavimento di una realtà malvoluta, sono la quotidianità di un matrimonio in rotta - le frequenti telefonate dell’ex moglie (Maria Bello) abbisognante delle pratiche di divorzio - e le fissazioni di uno sconosciuto alla porta, tale John Shooter (John Turturro), reclamante la paternità di un romanzo che troppo ha in comune con un precedente lavoro di Rainey. Ma le sembianze di questi presupposti manifestano le ambigue deformazioni di superfici riflettenti continuamente richiamate dall’impianto scenografico a confrontare il personaggio con se stesso, come ben sottolinea l’efficace sequenza a metà film dove lo scrittore, scandagliando la casa nel timore che Shooter vi si sia introdotto, non può far altro che scovare la sua immagine restituita dallo specchio del bagno. Si instaura la possibilità che in fondo i due racconti tanto somiglianti tra loro non siano anch’essi il riflesso deformante l’uno dell’altro e che la revisione del finale pretesa da Shooter affinché il plagiario scrittore possa scampare alla denuncia, celi la strategia di un’ulteriore avvicinamento dei due testi nel progressivo raggiungimento di una definitiva collimazione. I due testi coincideranno, accomunati infine dalla stessa conclusione (quella che forse Rainey, in un passato ancora dominato dall’amore per la propria donna piuttosto che dal rancore successivo al tradimento, non avrebbe potuto concepire) nel momento in cui il romanziere affronterà la sua immagine accettandone l’inevitabile deformazione. Nell’organizzazione narrativa e profilmica di questo confronto – Rainey in piedi nel suo salone fronteggiante la sua personale mimesi, separati dall’ampio e dominante specchio – Koepp non indugia nel rievocare il simile incontro, da lui sceneggiato per Spiderman di Raimi, tra Willem Dafoe/Norman Osborn e l’alterego Goblin. Mort Rainey, il cui Goblin psicologico non ha certo bisogno di impulsi elettrici per manifestarsi, ha di fronte a se un cappello invece di una ghignante maschera, ma la tentazione verso la liberatoria metà oscura e la possibilità del libero arbitrio sono fondamentalmente le medesime accordate al raziocinante Professor Osborn.
Ad evidenziare le felici intuizioni registiche di Koepp, va certo evidenziato come già dalla prima presentazione dell’interno domestico del protagonista, l’autore provveda da subito a mischiare le carte in tavola con un articolato movimento di travelling dolly che oltrepassa, dopo un sinuoso resoconto della casa, lo specchio sovrastante (a buon diritto la ‘finestra segreta’ dell’animo di Rainey), rovesciando e falsando da subito le fondamentali prospettive di riferimento. Un tocco virtuosisitico che, considerato il consecutivo svolgimento estetico, rimane isolato all’interno di una elegante, diligente e funzionale costruzione narrativa (a cui si aggiungono sporadiche ma evidenti concessioni alle direttive ritmiche del suspense-directing), preziosamente incentivata dalla classe fotografica di Fred Murphy con cui il regista sembra crescere in affiatamento dopo la prima collaborazione nel notevole Echi Mortali.
Philip Glass subentra invece a James Newton Howard (affiancante Koepp nei due precedenti progetti), sviluppando un tessuto sonoro di sottesa efficacia, prediligendo la personale cifra minimalista (spesso occhieggiante atmosfere herrmanniane nella sua velata ossessività) ma dimostrando, per orchestrazione e posizionamento degli interventi, una maggior disposizione ai canoni musicali specificamente cinematografici – senza dubbio un’evoluzione salutare in grado di temperare quell’invasiva ridondanza caratteristica dei pregressi approcci cine-musicali del compositore.
Considerata poi la significativa risposta del cast artistico, con Deep in buona forma ma sempre più comprovante la sua maggior intesa con ruoli ai limiti del caratterismo, l’incursione di Koepp nell’universo Stephen King potrebbe essere considerata senza dubbio meritoria. Eppure, nonostante la raffinatezza del trattamento psicologico caratterizzante il suo curriculm di sceneggiatore, Koepp inciampa proprio nella zona di picco emozionale, concentrando il suo sguardo sul versante più animato del penultimo blocco di script, sottraendo attenzione al definitivo snodo caratteriale del personaggio e costringendo quest’ultimo ad un’unidimensionalità stereotipante, peraltro dignitosamente evitata in precedenza. In quest’ultimo frangente il lungometraggio contatta tangenzialmente buona parte dei passati tentativi di riduzione dal ‘Re del brivido’, accomunati dall’incapacità di gestire equilibratamente quella particolare abitudine stilistica dell’autore, solitamente in ambito pre-finale, di sbrogliare gli intrecci narrativi attraverso densi passaggi descrittivi in cui le componenti di concitata azione e il dettagliato monitoraggio psicologico esplodono parallelamente in un’esposizione di notevole strutturazione.
Allontanata dai fin troppo severi e limitanti obblighi con il testo d’origine, Secret Window sa comunque brillare di vita propria: sempre più ammirevole nella sua progressiva evoluzione autoriale, Koepp riesce ancora una volta a distinguersi grazie ad una linearità di scrittura la cui essenzialità non impoverisce ma arricchisce, focalizza e, soprattutto, non approssimizza. E che il tratto di questo sceneggiatore di contemporanea classicità sia sempre meglio riflesso nella propria regia, è senza dubbio motivo di grande attesa per la sua prossima pellicola.