the Replicant

L'action drama e i volti di pietra
di Luca Persiani

 
  Replicant, Usa, 2001
di Ringo Lam, con Jean-Claude Van Damme, Michael Rooker, Catherine Dent, Brandon James Olson


The Replicant è il sorprendente parto di un particolare trio: l'hongkongese Ringo Lam (la trilogia "on fire", Full Alert), l'americano Michael Rooker (Henry pioggia di sangue) e il belga Van Damme (che ha già lavorato con Lam: Maximum risk), ossia l'action-drama d'autore, il corpo-macigno emblema della violenza e della limitatezza espressiva, e il corpo-atleta emblema (con Steven Segal) sia delle arti marziali del cinema mainstream americano sia, ancora, della limitatezza espressiva.
Il tutto inserito in una trama al limite dello "action/sci-fi disbelief": il governo decide di clonare un pericoloso criminale (Van Damme) e di affidare il clone ad un rocciosissimo agente (Rooker) perché questo doppio lo aiuti a scovare e neutralizzare il fuorilegge. Una volta accettata la premessa exploitation, ci troviamo di fronte a un film per molti versi stupefacente: forte di una sceneggiatura molto ben oliata (di Larry Riggins e Les Weldon), Ringo Lam prende saldamente le redini dello spettacolo con una regia puntuale, che ha una rara coscienza di ritmi e situazioni e domina alla perfezioni gli spazi. Come action , The Replicant è un bello spettacolo fatto di ottimi stunt spesso a "montaggio proibito", belle esplosioni, belle scene di combattimento perfettamente integrate nel discorso narrativo. Come melodramma tiene incredibilmente bene, raccontando con intensità l'incontro-scontro tra il cattivo e la versione buona/ingenua di se stesso, il quasi impossibile rapporto padre/figlio fra poliziotto e clone, il cui goffo "percorso formativo" nel mondo reale è credibile e godibile. Il film riesce ad evitare ogni trito patetismo (e ogni scivolata nel trash sempre in agguato in una simile situazione), e, soprattutto, convince lo spettatore della plausibilità di un gioco di sentimenti tenuto in piedi da due non attori, che per di più non rinunciano minimamente ai simboli di coattaggine che li hanno resi un cliché: la durezza bovina e una certa ottusità espressiva di Michael Rooker, la malvagità draconiana tutta capelli lunghi/motocicletta di Van Damme. Miracolosamente queste caratteristiche diventano parte integrante e sensata del progetto di estrema asciuttezza narrativa di Ringo Lam.
Come Hawks, Milius e Friedkin (per non citare che alcuni), Lam dimostra di saper padroneggiare perfettamente l'illustrazione delle dinamiche maschili fra personaggi al limite della semplicità. Ne viene fuori un'essenziale dimostrazione di cosa può essere il cinema popolare (relativamente) low-budget e di quali forti ed originali performance espressive esso è capace, sfruttando con pienezza elementi che dai più vengono considerati quasi alla stregua di un handicap gravissimo.