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Rendition - detenzione illegale
Rendition, Usa, 2007
di Gavin Hood, con Jake Gyllenhaal, Reese Witherspoon, Meryl Streep, Alan Arkin, Peter Sarsgaard

Il fine giustifica i mezzi?
recensione di Emanuela Andreocci



Attenzione! Heavy Spoiler!

Sono pochissimi coloro che sanno cosa significa realmente il termine "rendition", e tra questa minoranza quelli che, essendone a conoscenza, decidono di occuparsene, sono ancora meno. Gavin Hood si propone proprio, tramite un mezzo di comunicazione destinato ad un pubblico ampio ed eterogeneo, di far aprire gli occhi a tutti gli uomini in generale e all’America in primis, dando una forte ed efficace dimostrazione che il cinema di impegno, ad Hollywood, esiste.
La trama in apparenza è molto semplice: Anwar El-Ibrahimi, ingegnere chimico egiziano ma cittadino americano a tutti gli effetti, viene accusato di terrorismo. A Corinne Whitman, un cinico capo della CIA interpretato da Meryl Streep, basta un semplice sospetto per ordinare il sequestro dell’egiziano nel tentativo di costringerlo a parlare. Il risultato è che la sua famiglia non ha più sue notizie. Nonostante gli venga fatto credere che non sia mai salito sull’aereo che da Città del Capo lo riportava a Washington, Isabella - la moglie incinta interpretata da Reese Witherspoon - riesce a dimostrare, tramite i pagamenti effettuati dal marito con la carta di credito, che suo marito sull’aereo è salito, ma non ne è più sceso. Che fine ha fatto? Entrano in azione Alan Arkin, amico di Isabella e uomo politicamente impegnato, Douglas Freeman (Jake Gyllenhaal), un agente della CIA che deve prendere il posto del suo collega morto nell’attentato di cui El-Ibrahimi è accusato, e Abasi Fawal, il capo delle prigioni segrete. Ogni figura messa in scena ha la sua storia, ciascuna vita potrebbe essere raccontata in un film a parte, eppure il regista è abile ad incasellare le vicende dei vari personaggi in un racconto che, mai confuso, rende il pubblico sempre più interessato: non si tratta solo di voler capire chi è stato l’artefice dell’attentato, ma si tratta di indagare un caso ancora più profondo, scrutando all’interno dei cuori alla ricerca di una morale che si è persa. Assistendo ai vari interrogatori, vere e proprie torture, a cui l’egiziano è sottoposto, Douglas è il primo a domandarsi se il sistema americano sia giusto: gli scopi, come sostiene la Whitman in distaccati e freddi dialoghi, sono ineccepibili, soprattutto dopo l’11 settembre, ma non si può dire lo stesso dei modi.
Il regista è sicuramente capace ad unire e a differenziare le varie vite: a cominciare dalla fotografia e dal sapiente uso dei colori (caldi e solari per le scene in esterno in Africa, cupi e neri per la prigione, freddi per gli uffici dei capi e dei politici), per finire con un uso del montaggio che tende a colpire lo spettatore: un esempio è costituito dalle scene alternate della notte, dove si vede la moglie che non riesce a prendere sonno nel letto e suo marito che fa lo stesso ma all’interno di una minuscola cella. Una menzione particolare la merita il colpo di scena finale: con quello che può esser definito un vero tocco da maestro - il ripetersi dello stesso scoppio della bomba visto all’ inizio ma con angolazioni differenti - lo spettatore capisce che non tutto quello che finora si è visto è stato l’evolversi cronologico della storia, ma che le vicende legate alla figlia di Fawal, Fatima, e al suo ragazzo, sono precedenti. Il pubblico ne rimane spiazzato, ma la scelta registica è solo un’allusione ai contenuti: sono i temi trattati che devono disorientare, inorridire, far riflettere, pensare ed agire, perché non è più possibile far finta di nulla.