Red dragon

La pietà non visionaria
di Luca Persiani

 
  Red dragon , USA, 2002
di Brett Ratner, con Edward Norton, Anthony Hopkins, Ralph, Fiennes, Emily Watson, Harvey Keitel


L'inevitabile confronto fra la pellicola di Brett Ratner e il Manhunter di Michael Mann (il film che per primo ha portato sullo schermo il romanzo di Thomas Harris) è per molti versi un'operazione ingenerosa, tenendo conto delle enormi differenze stilistiche ed espressive che passano fra i due registi e i due contesti produttivi. Mann si scavava, negli anni ottanta, una nicchia visionaria all'interno del cinema commerciale, trasformando una bella storia thriller-noir in un'occasione per mettere in scena un cinema complesso e istintivo, fatto di immagini brucianti e intense, ritmi personali e afflati classici. Ratner e lo sceneggiatore Ted Tally si trovano invece a dover servire una macchina produttiva che dall'operazione si aspetta una riuscita molto più lineare, che capitalizzi con efficacica ed efficenza il successo del mondo di serial killer creato da Harris e, nel frattempo, assurto a pietra miliare dell'imaginario collettivo mondiale. La perfezione romantica del melodramma incandescente che Il silenzio degli innocenti aveva sposato al thriller-horror, equilibrando definitivamente il valore di protagonista e antagonista fino a spingere in modo più evidente che mai l'empatia dello spettatore esattamente a cavallo di cacciatore e mostro, è stata lo spartiacque di una strategia narrativa ormai tutta sbilanciata da una parte, la parte del mostro. Come già in Hannibal di Ridley Scott, Il "buono" è un finto protagonista: che sia debole o forte, abile o incapace non è comunque mai affascinante. E' un catalista, un oggetto che spinge o genera l'azione. Ma il film non parla realmente di lui: Red Dragon è lo smascherasi definitivo di questa tendeza. Mettendo da parte l'istrionico Hannibal Lecter di Anthony Hopkins - una figura godibilissima ormai declinante verso il macchiettismo ma comunque sempre ammantata di una dignità espressiva rara - da una parte il Will Graham di Edward Norton è un personaggio completamente privo di fascino, impiegatizio e grigio, le cui facoltà intuitive ai confini col paranormale vengono appena accennate. Ha una famiglia normale, un contegno anonimo, nessun segno distintivo realmente affascinante. Dall'altra il Francis Dollarhyde di Ralph Fiennes è una figura finemente cesellata, dalla natura complessa e tortuosa, su cui si incentra un melò intenso basato su una storia d'amore fra minorati: un malato mentale e una cieca (Emily Watson). All'esatto contrario di Manhunter, tutta l'attenzione del pubblico è guidata, anche fotograficamente, sul tormento interiore del serial killer, la cui intelligenza, per una volta, non va di pari passo con una assoluta amoralità. Anzi, riuscitissimo in questo senso è il momento del primo tentato suicidio di Dollarhyde: efficae planting di sceneggiatura per il colpo di scena finale e insieme momento di climax, dal tempismo perfetto, del racconto di una psiche tormentata che lotta contro se stessa e il suo passato. E' un mostro spietato ma privo di perfezione, che suscita pietà: il suo dramma e quello della donna che ama sono legati intimamente a quello delle vittime, e quindi sono il centro del racconto. Ratner sembra fare registicamente una scelta lucida e radicale per sottolineare questa impostazione del plot, caricando di attenzioni la messa in scena, sempre calda e partecipe, dei segmenti narrativi dei due amanti, e sottraendo fascino e intensità alla storia di Graham. Non a caso i due mondi rimangono sempre rigidamente separati, e quando alla fine si incontrano, è il mondo di Graham a doversi sporcare dell'orrore della violenza infantile che ha segnato il destino di Dollarhyde: l'agente dell'FBI insulta pesantemente il proprio figlio, in un tentativo estremo di salvargli la vita, per suscitare nel serial killer un sentimento di pietà e vendetta nei suoi confronti. In quel momento lo spettatore è al centro di un meccanismo empatico sottile e complesso che viene mantenuto in vita per un tempo giustamente brevissimo: da una parte il desiderio di veder salvo un bambino, dall'altra la piena comprensione dell'atteggiamento del mostro che, da aggressore, si ribalta in un attimo e con piena credibilità in difensore dell'innocenza violata, e quindi anche di se stesso.
Red dragon sceglie di asciugare completamente la visionarietà del progetto originale senza neanche tentare il confronto con Manhunter, giocando su territori sicuramente più popolari ma che sono solo la base di partenza per una intensa esplorazione dei meccanismi narrativi del melodramma mainstream, con una riuscita particolare e non perfetta ma comunque una sensibilità non comune.