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John Rambo
Rambo, Usa, 2008
di Sylvester Stallone, con Sylvester Stallone, Julie Benz, Paul Schulze, Matthew Marsden, Graham McTavish

Intrattenimento Educativo
recensione di Gianmaria Consiglio



A sessant’anni la partita è ancora aperta e si possono chiudere certi conti in sospeso. Questo è ciò che Sylvester Stallone sta dimostrando al mondo intero.
Dopo un lungo periodo di allontanamento dalle sue creature e alter-ego, Rocky e Rambo, finalmente è riuscito a riscattarli e a riscattarsi, emancipandosi definitivamente dallo stereotipo del bodybuilder tutto muscoli e poco cervello. La sua innata capacità di entrare nella psicologia dei personaggi e di svelarla ha raggiunto l’apice in quelli che dovrebbero essere i capitoli risolutivi di Rocky (uscito nelle sale italiane un anno fa) e Rambo, due delle saghe cinematografiche più popolari (nel senso più alto del termine) e avvincenti di sempre.
Nel caso di John Rambo, un eroe molto più introverso e d’azione di Rocky, un certo approfondimento della sua interiorità era un’impresa ardua, compiuta invece a pieno dallo sceneggiatore, regista e attore Stallone, che ha dimostrato di conoscere il personaggio nel profondo, come una rappresentazione del proprio lato primordiale, incompreso ed emarginato. Nessuno dei tre film precedenti erano stati diretti da Stallone, il quale si era limitato alla sceneggiatura, e qui la differenza si vede. Solo il primo ha delle reali affinità con John Rambo, perché in entrambi tutto ciò che accade è realmente motivato, e il protagonista è più umano e meno supereroe. Qui Rambo ha perso la voglia di litigare, è rassegnato, ma la sua coscienza lo costringe di nuovo a rischiare di "morire per qualcosa", ma alla fine non riesce a cambiare nulla, tranne se stesso.
Liberatosi da vincoli contrattuali, messi in discussione il reaganismo e l’antisovietismo e ridimensionata una certa spettacolarizzazione dell’azione, Stallone è riuscito a rifinire uno stile molto personale e ben riconoscibile sia dal punto di vista formale che dei contenuti, reinventando il genere del film d’azione, senza sprecare un secondo, facendo muovere i vari fili della trama verso un unico centro, allo scopo di rendere fluida e comprensibile la trasmissione di informazioni e sensibilizzare lo spettatore alla riflessione. Il coraggio che muove Rocky e Rambo a superarsi e a trionfare è lo stesso che ha portato Stallone ad ambientare questa sua ultima fatica in Birmania, nel pieno di una guerra civile disumana, oltre i limiti dell’immaginazione, e abbandonata a se stessa dall’informazione e da tutti gli stati membri dell’Onu. Stallone si è assunto l’enorme rischio di girare gran parte del film ai confini del conflitto, interamente in location esterne, per ottenere il massimo realismo possibile, combattendo le avversità ambientali della foresta tailandese e le minacce del governo locale, con un cast in parte costituito da ribelli Karen, rifugiati e vittime delle mine. L’ha definita «un’esperienza gloriosamente brutale» e al contempo artigianale, aggiungiamo noi, con un uso sapiente e funzionale della tecnologia che cerca di ricreare lo shock visivo di scene reali di guerra come se, paradossalmente, venissero comodamente viste da una playstation.