Personal velocity
Il cinema in fallo
di Luca Perotti

 
  Personal Velocity: Three Portraits, Usa, 2002
di Rebecca Miller, con Kyra Sedgwick, Parker Posey, Fairuza Balk


Mi ha parlato di penefobia… tu ne sai qualcosa?” chiedeva una confusa Diane Keaton/Annie Hall appena uscita dall’analista ad un curioso Woody Allen/Alvy Singer in Io e Annie; “..Io?...Beh… sono uno dei pochi maschi che ancora ne soffrono” rispondeva lui argutamente.
A guardare Personal Velocity ci si sente esortati a reagire con una dose di facile ironia dalle spregiudicate risonanze maschiliste.
A guardare cioè un film che ostenta la sua femminilità ma non riesce ad affrancarsi dall’urgenza di una presenza fallica che ne garantisca la compattezza narrativa. E che non riesce a nascondere un senso di attrazione-repulsione verso un catalizzatore maschile.
La presenza fallica agisce sia all’interno della diegesi in quanto l’esistenza di figure virili condizionanti è una costante degli episodi su cui il film è strutturato, sia nel timbro cavernoso della voce off che illumina le zone opache assicurando in tal modo la fluidità del racconto e la coerenza psicologica delle azioni compiute, delle scelte fatte da Delia, Greta e Paula, le tre protagoniste.
Rebecca Miller, figlia del celebre drammaturgo Arthur, dipinge un triplice ritratto traendolo da una sua pubblicazione e cercando di trovare un compromesso tra densità letteraria e il diradamento narrativo tipico del cinema indipendente, accentuato altresì dall’opzione per la leggerezza del formato digitale.
L’inserimento di frame stop di matrice Dogma, la fotografia untuosa, così come la tendenza ad uno scollamento nella scorrevolezza dell’esposizione, quella sorta di disgregazione calcolata pertinente al prodotto, sono strategie molto comuni per trasmettere un senso di emancipazione dal cinema e dal cinema fallocentrico in particolar modo.
Un’autarchia che però si rifugia nella comodità di accorgimenti letterari per rappezzare gli sfrangiamenti, per far riconvergere le dispersioni verso un centro forte e robusto, da cui poi poter di nuovo scappare, per poi ancora ritornare. Eccetera eccetera.
Il commento fuoricampo è la puntualizzazione che permette allo spettatore di rimanere agevolmente a ridosso degli itinerari delle tre donne che finiscono tuttavia per gravitare in un’orbita fallocentrica, accomunate da una fragilità e da una subordinazione ineluttabili. Così come il testo filmico di Rebecca Miller patisce la sudditanza di un cinema più coeso e collaudato a cui rinviarsi per ottenere protezione.
Delia, Greta e Paula vengono colte in un istante di vita transitorio; l’ingresso nelle loro psicologie avviene con l’avvio di uno stato di smarrimento. Nel caso di Delia, in occasione della fuga da un marito manesco, in quello di Greta dalla presa di coscienza dell’insoddisfazione per un matrimonio tanto affidabile quanto asfittico e per Paula, infine, in contemporanea ad uno stato di maternità indesiderato.
Soprattutto nei primi due casi, la friabilità psicologica trova le sue radici nella presenza di una figura maschile invalidante: Delia ricomincia a vivere come cameriera in un diner di provincia ma per rafforzare la sua autonomia sceglie di riesercitare il suo potere sessuale così come era abituata a fare ai tempi della scuola; Greta vive costantemente nello sforzo di far carriera per soddisfare il padre, avvocato di prestigio da cui ha ereditato anche l’inclinazione all’infedeltà.
Infine Paula. Che non ha nel suo retaggio una figura maschile così invasiva a cui attribuire la propria vulnerabilità . La sua crisi ruota attorno ad un bisogno di maternità che si realizza a partire da uno stato di gravidanza indesiderato e che diventa incoraggiamento a proseguire per effetto di un doppio episodio casuale: la morte accidentale dell’uomo conosciuto in discoteca e l’incontro con il ragazzino autostoppista malmenato. Il Caso proietta lo spettro della morte, dunque, come monito che indica una scelta, che suggerisce un modo di comportarsi.
Sia il senso di colpa, sia una traiettoria di vita affannosa e ondivaga, priva di una meta certa sono elementi comuni di storie connesse ad un perno centrale il quale diventa giustificazione delle proprie azioni, rifugio in cui rintanarsi e da cui trarre vigore per risalire la china.
I finali aperti sono una chiosa coerente ai brevi tracciati di vita raccontati che non potrebbero certamente risolversi con un ricompattamento catartico.
Si percepisce tuttavia una soggezione di fondo che lega le donne raccontate e la donna che racconta; un percorso di riabilitazione che sembra però attendere timidamente un ulteriore giudizio che convalidi le scelte, un’attenuante che scagioni.
Un film fragile, sulla fragilità, che rimane in sospeso tra difesa e biasimo. Che alterna remissività e tracotanza. Un film che sembra far confusione tra femminilità e femminismo nel suo rimanere comunque prigioniero di uno sguardo. Quello rivolto al pene.