la Passione di Cristo
La Passione del Superuomo hollywoodiano
di Francesco Rosetti

 
  The Passion, USA, 2004
di Mel Gibson, con Jim Caveziel, Maia Morgenstein, Monica Bellucci


Alla fine, dopo tre mesi (minimo) di lancio pubblicitario mimetizzato da speculazione teologica e occupazione paramilitare di schermi, paginate di quotidiano, siti e spazi audiovisivi assortiti, arriva La Passione di Cristo, vale a dire la canea, il dibattito (vale a dire il sanguinoso scambio di contumelie e già che siamo in ambito religioso, le scomuniche e gli anatemi tra addetti ai lavori i più disparati, con tanto di rinfaccio reciproco sull’ ignoranza delle Sacre Scritture), la corsa a dire la propria, il bigottismo critico nazionale pronto a scatenarsi in ogni rubrichetta di ciclostilato, per un tema che richiederebbe ben altre (e alte) prese di posizione. Sarà possibile salvarsi dal chiacchiericcio? No, non sarà possibile e nemmeno questo piccolo spazio ne sarà immune (per quel che riguarda chi scrive), quindi il massimo che sarà possibile ottenere in questa recensione sarà limitare il terreno di elucubrazione al film, senza lasciarsi prendere più di tanto dalle altre implicazioni socioeconomicobioesistenzialiteosofiche. Quel che si è notato in questi giorni, infatti, è che la maggior parte delle critiche in Italia si concentrano non tanto sulla pellicola in sé, quanto sulla liceità stessa dell’operazione di Mel Gibson. Uno dei cardini irrinunciabili e condivisi di tutta la condizione culturale occidentale, riletto nelle forme del kolossal ad alto budget, diretto da una star dal tono registico muscolare a dir poco e con l’aspetto di operazione commerciale d’alto bordo. Ed ecco i contrasti, Dio e mammona, religione e mercanti del Tempio, corpi straziati ed effetti digitali, spiritualismo e fanatismo bushista. In realtà l’ operazione sarebbe stata possibile se Gibson si fosse posto più a fondo il problema delle implicazioni estetiche (quindi morali) che il suo progetto si portava dietro, delle ambiguità presenti nonostante le sue buone intenzioni. Non lo ha fatto, è andato giù piatto con il suo sermone danaroso e il film è mancato completamente nel suo versante concettuale. Siamo solo allo spettacolo industriale confezionato senza rischi (l’utilizzo di lingue sconosciute e morte come il latino e l’ aramaico non può essere veramente un ostacolo alla comprensione e alla partecipazione emotiva per un pubblico planetario abituato alla recitazione hollywoodiana, alla gesticolazione hollywoodiana, alla grammatica visiva hollywoodiana etc.), in cui il tentativo di Gibson di dare respiro spirituale alle immagini peggiora le cose. Non si pretendono qui le sconvolgenti meditazioni filosofiche sulla fede di Dreyer o Rossellini, Bresson o Pasolini, che sono nate in ambiti culturali e produttivi completamente diversi. Il cinema hollywoodiano contemporaneo ha delle sue ben precise caratteristiche formali che gli rendono difficile raggiungere l’evanescenza di immagine di Rossellini, Bresson o magari Tarkovskij. Nondimeno registi come Scorsese, Schrader, Coppola, Malick ,forse Boorman e Weir (fuori Hollywood, Arcand e Abel Ferrara) sono riusciti a sfiorare con il loro cinema lo spazio del trascendente. Gibson sbaglia il film non perché scelga la forma del kolossal, ma perché toglie al kolossal stesso la salutare ambiguità che sonnecchia in ogni pellicola hollywoodiana, soprattutto in quelle d’autore e che, nel suo caso, consentirebbe il passaggio dalla predica fanatica alla contemplazione del mistero dell’incarnazione e della Resurrezione. Con il suo film l’attore e regista australiano non vuole far meditare, non vuole neanche insegnare a pregare, perché questo porterebbe a riflettere su quanto possa essere ambigua, perfino aggressiva, l’invocazione a Dio. Gibson vuole solo convincere a pregare (e a pagare il biglietto) e per ottenere ciò mostra la Passione in tutta la sua crudeltà e così si deraglia nel De Mille con più ferite. Ogni tortura inferta a Cristo è usata come argomento retorico. Mutuando un termine dalla storia dell’arte, il suo è un film devozionale, che al massimo dimostra come nello zelo devoto si possa nascondere perfino una violenza sadica nei confronti dell’icona divina invocata. Non mancano esempi di arte religiosa che arrivano all’effetto truculento (non solo l’esempio di Caravaggio, basterebbe pensare all’altare di Isenheim di Grunewald o al Cristo morto di Holbein), ma in questi casi la presenza del dettaglio macabro è figlia di una meditazione rigorosissima sul rapporto tra azione, rappresentazione e distanza oggettiva come motore della contemplazione. Qui non solo il corpo martoriato è solamente un argomento per spingere alla devozione, ma quello che dovrebbe essere un film sulla umanità del Cristo uomo, Dio fatto carne diventa la glorificazione di un immaginario superomistico. Cristo appare subito come un eroe, anzi, come appena detto un supereroe, un eletto che non ha molto a che spartire con quelli che lo circondano, anzi appare loro, come un’apparizione straordinaria che non lascia mai indifferenti. Sconcerta il fatto che l’occhio registico di Gibson, tanto più mostra la Passione di Cristo con le sue atrocità, quanto più ne sottolinea la dimensione sovrumana, che non ci riguarda, se non come beneficiari. Jim Caviezel compie prodigi, è virile nella sua mansuetudine, mostra “una resistenza incredibile” come afferma uno dei suoi aguzzini durante la fustigazione, tutte caratteristiche che Gibson utilizza per allontanare il personaggio dagli altri protagonisti del racconto evangelico. Non è la ricerca del Dio icona, ineffabile anche nella sofferenza, lontano anche nel martirio, la cui apparenza umana ne cela ulteriormente il mistero, anche perché il film non lo inquadra così, anzi fa della sofferenza metafora, con zoom, ralenti e dettagli esibiti in abbondanza. Non è nemmeno, però, il verbo che si fa carne di S. Giovanni, un uomo che dal suo stesso martirio insostenibile trae la sua straordinarietà agli occhi di chi lo guarda, che si rivela proprio nel dolore cui si sottopone, ma è un semidio, una potenza celeste in abito umano, che si sottopone alla sua prova perché se lo può permettere, una specie(paradosso) di Dio pagano, che appare agli uomini e poi torna alla sua veste con assoluto agio, sempre tenendo presente la differenza di qualità tra i due ambiti. Gibson si compiace della sofferenza mostrata, ma la sua preghiera in pellicola non è una “imitatio christi”, pure possibile per un attore i cui personaggi mostrano una vena masochistica che, in filigrana, può diventare percorso cristologico (si veda il William Fallace di Braveheart), anzi si ha la sgradevole sensazione che sia piuttosto la figura di Cristo ad essere adattata all’immagine superba e inimitabile che ha Gibson per l’eroe, fosse anche l’eroe cristiano. Forse l’essenza dello sbaglio del regista si trova tutta nella primissima sequenza del film. Uno sguardo dall’alto dei cieli, sopra le nubi, che si tuffa a terra, a cercare l’Eletto. L’occhio registico si identifica con l’ occhio divino (una intuizione lasciata pericolosamente a sé stessa). Se è vero che Cristo nel film è sempre un feticcio guardato (consumato) dagli occhi altrui, è anche vero che gli sguardi dei personaggi sono sempre condizionati (creati) da questo occhio divino che li costringe a riconoscere la natura fuori dall’ordinario del suo figlio prediletto. Niente mistero (forse una semplice narrazione spettacolare e convenzionale, senza ralenti e metafore sarebbe stata più efficace nell’evocare il mistero), tutto è chiaro a Gibson e tutto deve essere spiegato con l’esibizione (filologicamente corretta) del Crocefisso. Nè Dio totalmente altro, né Cristo fatto uomo, ma eroe cristiano. Interpretazione plausibile se Gibson non l’avesse imposta registicamente come Verità di fede, storica, e cinematografica tutto insieme. Solo la seconda soggettiva di Dio padre, che lacrima dall’alto sulla Croce e provoca terremoti (di per sé bella immagine sfruttata malissimo), mostra cosa avrebbe potuto essere un film sulla trasparenza cristallina della parola di Dio e sul rapporto trasparenza-opacità dello sguardo, come in Pasolini dove era la stessa predicazione a scandire le luci e le ombre dei volti ad illuminare, a dare la visione. Qui (e non è solo colpa di Hollywood, intendiamoci), tutto è mostrato, manca la visione.