le Particelle elementari

Il peso dell’atomo
di Emanuele Boccianti

 
  Elementarteilchen, Germania, 2006
di Oskar Roehler, con Moritz Bleibtreu, Christian Ulmen, Franka Potente


C’è molta materia ne Le particelle elementari, questo è fuor di dubbio. Arriva a grosse ondate, scena dopo scena, ma, malgrado il titolo, non è distillata in quanti discreti facilmente assimilabili dallo spettatore. Non è ridotta a particelle elementari. Prendere le parti del fruitore medio non mi è molto difficile, non avendo completato la lettura del romanzo originale, quel bestseller di Michel Houellebecq che mischia, mi dicono, così sapientemente saggio e narrazione, dissertazione filosofico-sociale e fiction letteraria. E comunque questa genitura così ponderosa non solo non è mimetizzata, è anzi spesso ingombrante.
Due fratellastri, venuti al mondo con un ingente carico di problematiche affettive con cui fare i conti giorno dopo giorno, cercano in modi diametralmente opposti di trovare il loro statuto, il loro senso nella società, facendo del loro meglio per sopravvivere a quella che, nel loro caso, non è una famiglia, ma un dramma distribuito - in maniera ineguale - su due generazioni. Michael è un genio della matematica e un brillante genetista, ma difetta completamente di quelle abilità interrelazionali che gli permettono di aprirsi all’altro sesso. È un potenziale premio Nobel, ma è ancora vergine. Bruno è un cupo e rabbioso reazionario, che tenta di farsi pubblicare saggi poco lucidi in cui illustra la sua visione dell’altro: i “negri”, ad esempio, che sono primitivi, che non si lavano, che sono incivili. Mentre Michael fa della propria autosegregazione dall’eros un tema di ricerca scientifica, esplorando le possibilità che la tecnologia genetica può dischiudere all’umanità per separare totalmente e definitivamente l’atto sessuale dalla procreazione - fino ad arrivare ad auspicare scientificamente la possibilità di una riproduzione asessuata per sé e i propri simili- Bruno si disperde in un caleidoscopio tendenzialmente squallido di esperienze sessuali, è psichicamente instabile, e maneggia la propria sessualità come un arma di cui non conosce portata né senso. Al centro della vicenda: il sesso. E una madre, residuato vivente (e felice, almeno lei) di una generazione e di un modo di vivere, quello del ’68, delle comuni, dei beatnik, del sesso libero, che risulta la matrice primaria delle difficoltà di socializzazione che affliggono i due figli. Il sesso libero, separato chirurgicamente e ideologicamente da qualsiasi portato culturale comunemente (borghesemente?) accettato, ha affrancato questa donna solare, splendente nei suoi occhioni da cerbiatta e nei suoi sorrisi assenti, ma ha condannato Michael e Bruno, tralasciati, trascurati, scaricati ai nonni come responsabilità da evitare per poter vivere in tranquillità indolore il mondo che si è scelta. Ormai trentenni, i due troveranno l’amore, ma, con tali premesse, e con lo sguardo caustico, impietoso e “abietto” (come dice espressamente Houellebecq) che il narratore usa per dipingerci la realtà, non saranno né rose né fiori, dato che a quanto pare amare gli altri in maniera adulta, o semplicemente equilibrata, non è faccenda che si possa lasciare alla semplice improvvisazione.
Questa è la storia. Che filtra qua e là, a volte più perspicua, altre volte meno, attraverso un ordito registico fitto di vuoti, di strani tempi morti, che lasciano intendere la fatica notevole che il regista, Oskar Roehler, deve aver incontrato nel tentativo di tradurre il romanzo prima in sceneggiatura, poi in immagini. Il passo è spesso incerto, i dialoghi suonano più d’una volta come duelli in cui gli antagonisti sparano le proprie frasi, a farle risuonare come eventi lugubri in spazi angusti. I personaggi sono continuamente inscritti in primi piani lunghi e statici, come se ci fosse bisogno di sottolineare anche in questa maniera l’aura drammatica che li circonda, che li spinge ad agire e a soffrire; ma tutto questo comporta alla fine una regia statica, onusta, pesante. Che il regista non voglia bene ai propri personaggi è un malinteso in cui è troppo naturale incappare, aiutati come si è da vicende che vediamo sullo schermo e non possiamo non interpretare come un innaturale accanimento del caso contro i due sfortunati. Che magari troveranno anche loro la loro felicità, il loro posto al sole, come nella scena finale della gita al lago. Ma basta staccarsi per un attimo dalla superficiale semantica di luci e colori (solo nella scena finale pare che ci sia per i protagonisti la possibilità di stare a testa alta “en plein air”) per concludere, in tempo con una didascalia di chiusura che è un cinico e terribile epitaffio, quanto possa far male ad una storia dichiaratamente depressiva un costume cinematografico così poco illuminato dal nitore dello humour e così poco ritmato dal beat dell’ironia. Ma la Germania, a quanto pare, non è la Francia. Roehler non è Arcand.