Oro rosso
Ad occhi aperti
di Luca Perotti

 
  Talaye sorkh, Iran, 2003
di Jafar Panahi, con Hossain Emadeddin, Kamyar Sheisi, Azita Rayeji


Pedinare un uomo che diviene l’elemento significativo per una rappresentazione documentaristica di un tessuto sociale è una metodologia riconoscibile: come se Zavattini e il suo ‘credo’ fossero stati catapultati nel tempo e nello spazio per infittire di trasparenza un cinema (iraniano) già modellato sulla reiterazione della propria riconoscibilità.
Con la medesima visione utilitaristica e nitida del cinema di Zavattini, Panahi converge su un fatto di cronaca, lo sorveglia con rigore ma lentamente si allarga fino ad abbracciare le contraddizioni di un comportamento morale più generale e diffuso.
Con la medesima meticolosità, Panahi spia il suo personaggio nel tentativo di risoluzione del suo problema singolo, lo accompagna a visitare luoghi, lo affianca negli incontri e lo guarda dritto negli occhi per captare le sue reazioni più intime.
Il piccolo uomo che si sente umiliato perché acquisisce coscienza del divario tra ricchezza e povertà, tra città bassa e città alta; che sente su di sé per intero tutto il peso di un’ineluttabilità finisce per essere la chiave che apre uno varco esplicativo sulla Teheran odierna, sulla sua arretratezza che non smette di mietere vittime.
È come se lo sguardo, molto controllato e rigoroso, di Panahi (su cui vigila quello di Kiarostami) gradualmente si innalzasse per inquadrare la messa a nudo delle regole sociali di una società vecchia/nuova, pur rimanendo fedelmente allacciato all’oggetto di partenza della sua osservazione.
La ricerca sul campo allora si compie a partire dal cuore del più interno di una serie di cerchi concentrici, ma la posizione dell’occhio gradualmente si muove sempre più lateralmente fino ad ispezionare il perimetro della circonferenza più esterna, e successivamente ripetere il movimento in senso contrario per ritornare nel cuore di un dramma disperato e interiore.
L’incipit e la fine (il doppio lentissimo e perfetto piano-sequenza del suicidio nella gioielleria) sono la cornice che contiene il ritratto di una società che vibra instabile nelle sue contraddizioni, che soffre della vulnerabilità tipica di chi è colto nella vertigine di un ‘dopo’ non programmato mentre l’ingombro di un ‘durante’ ancora incancellabile continua a pesare come un macigno.
La narrazione concentrica si costruisce intorno a tre momenti significanti: il primo è quando la polizia impedisce ad Hussein (esponente della città bassa) di consegnare la pizza al secondo piano di un edificio (dove uomini e donne della città alta stanno festeggiando il loro benessere) ma il motivo è inspiegabile e oscuro. Il secondo vede Hussein affrontare l’umiliazione della sua condizione sociale quando il padrone della gioielleria lo rispedisce nei negozi dei bassifondi più consoni alla sua disponibilità economica. Il terzo, surreale e grottesco, lo vede vagabondare senza senso all’interno di una reggia pacchiana comprensivo di tuffo finale in piscina.
Sono tre momenti palpitanti e carichi di energia negativa che sembrano gravidi di un evento tragico, direzionati verso un punto di arrivo ma che tuttavia si risolvono con una nulla di fatto: il climax si sgonfia e si scarica diluendosi nell’inizio della sequenza successiva.
A congiungere le tre tappe sono dei lunghi intervalli di ‘nulla’, brevi viaggi coperti dallo spostamento in scooter attraverso una Teheran caotica e zeppa di lamiere che nascondono le schizofrenie neoborghesi e opacizzano gli epicentri di povertà.
Solo gli occhi di Hussein, prigioniero di un’afflizione inguaribile, sembrano spalancati e capaci di distinguere con nitidezza ogni aspetto contraddittorio e doloroso, come uno di quegli attimi di estrema consapevolezza in cui ogni cosa trova la sua lucida spiegazione.
E l’occhio dello spettatore ne diventa un prolungamento ancora più potente perché, rispetto a quello di Hussein, riesce a capire che il ‘dopo’ di una società ancora in via di (de)formazione si sta pericolosamente avviando verso la rincorsa dell’etichetta, cioè di una delle molteplici derive decadenti della società borghese.
A conferma che il cinema iraniano è, ancora e anche in Panahi, un cinema che insiste nel mettere in risalto una dicotomia: trovare la forza di vedere e far vedere laddove non sembra esserci altro che l’apatico e volontario atto di stringere forte gli occhi, negare lo sguardo e rinchiudersi nella penombra e nella cecità.