Ogni cosa è illuminata

La luce del passato
di Piero D’Ascanio

 
  Everything is illuminated, USA, 2005
di Liev Schreiber, con Elijah Wood, Eugene Hutz, Boris Leskin


Capita a volte d’imbattersi in oggetti filmici sorprendenti, e di voler loro bene. Magari perché parlano di cose importanti, e lo fanno senza mai alzare la voce; magari perché, discretamente, emozionano; magari, semplicemente, perché lasciano quel buon sapore in bocca. Ogni cosa è illuminata di Liev Schreiber è uno di questi oggetti.
Opera prima dell’attore che fu Orson Welles in RKO 281 - più di recente l’abbiamo notato in The Manchurian Candidate di Demme - il film traspone in immagini il fortunatissimo romanzo del men che trentenne Jonathan Safran Foer. La storia fa perno sullo schema classico della quête, quella di un giovane americano alla ricerca della donna che salvò la vita a suo nonno durante la Seconda Guerra Mondiale, in una piccola città ucraina spazzata via dall’invasione nazista. Gli fanno da guida un imprevedibile ragazzo di Odessa, il di lui nonno e un cane dal nome pittoresco.
Due cose sono da subito chiare: la prima è che ci troviamo dalle parti del road-movie, duttile contenitore trans-genere di mezza storia del cinema; la seconda è che Ogni cosa è illuminata è un film dalla doppia anima, come ormai non è nemmeno più così raro vedere: rimanendo nella stessa area tematica, basti pensare a La vita è bella di Benigni, giocato come il film in questione sullo slittamento drammatico di una vicenda partita su toni da commedia; o allo Spike Lee di She Hate Me, meno netto nel separare i due ambiti ma anche molto più confuso e irrisolto.
Nell’opera di Schreiber lo shift tra comico e tragico è evidente, e spacca il film in due: nella prima parte assistiamo alla presentazione, assolutamente sopra le righe, della famiglia del giovane Alex, il ragazzo ucraino a cui presta faccia ed espressività straordinarie l’esordiente Eugene Hutz, e al loro spassoso incontro con la diversità dell’”alieno” Jonathan; nella seconda l’ombra dell’Olocausto inghiotte tutto, e cancella il sorriso dai volti dei personaggi, così come aveva fatto con la piccola cittadina di Trachimbrod dalla cartina geografica, mezzo secolo avanti. Deriva necessaria, questa dell’ultima parte del racconto, e condotta con buona sobrietà dal regista, fatto quanto mai apprezzabile a contatto con una materia già così carica di drammaticità; dispiace solo veder scemare in suo nome alcuni tra gli interessanti spunti di comicità surreale del primo “movimento” del film: uno per tutti, lo splendido escamotage della cecità “isterica” del nonno di Alex, azzeccato motore comico di una serie di indovinate gag, eppure non privo di un suo retrogusto amaro: basti ripensare a ciò che di fatto condusse il povero vecchio, anni addietro, a vestire i fittizi panni del non vedente, con tanto di cane.
Il road-movie, si diceva. Quel che il sottogenere in questione porta sempre con sé sono due elementi: il primo è l’esaltazione del materiale paesaggistico, fondamentale nei due sensi di puro landscape figurativo e di correlativo oggettivo dell’intimità emotiva dei personaggi; il secondo è un’ovvia distensione del racconto, necessaria per rendere il più oggettiva possibile l’evoluzione - il “percorso”, fuor di metafora - delle psicologie in gioco: nessuno schema narrativo rende miglior servizio dell’on the road al racconto di un’iniziazione, sia essa alla vita, o alla morte. E il recupero di un passato quanto mai doloroso, in Ogni cosa è illuminata, avvicina i personaggi all’una e all’altra.
Sul versante figurativo, poco si può appuntare al film: perfetta la cornice della storia, fotografata da Matthew Libatique con accenti pittorici, soprattutto quando il racconto arriva a Trachimbrod, e il viaggio dei tre a conclusione. Ma Ogni cosa è illuminata rimane principalmente un film d’attori. Notevole, soprattutto in questo senso, il lavoro dell’esordiente Schreiber: il suo quartetto in viaggio per l’Ucraina “gira” alla grande. Se infatti del giovane Hutz si è già detto, ci fa piacere riscoprire Elijah Wood calato in un mood recitativo perfetto per il suo Jonathan; quanto al veterano Boris Leskin, attore di formazione teatrale approdato al cinema di Chantal Akerman e docente di recitazione fino all’altro ieri, basti dire che un suo primo piano in sottofinale trattiene da solo metà del senso della storia. E schiude la porta alla luce dei ricordi.