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Ocean’s thirteen
Id, Usa, 2007
di Steven Soderbergh, con George Clooney, Brad Pitt, Al Pacino, Elliot Gould, Andy Garcia

Lo spettacolo di una messa in scena
recensione di Francesco Rosetti



Qual’è la chiave del successo di una franchise come Ocean’s thirteen? In teoria la risposta principale è l’attrattiva evidente che gli attori divi sanno catalizzare su sé stessi, soprattutto quando si tratta di Brad Pitt o George Clooney. Le due icone divistiche funzionano benissimo in un contesto che ne esalta non solo il fascino ma anche l’elemento, per così dire, avventuroso, che li porta oltre la legalità e i codici. In un certo senso il divismo ostentato delle tre pellicole di Soderbergh rimanda ad esempi che stanno a cavallo tra alcuni eroi ambigui degli anni cinquanta (il parallelo solito Clooney-Cary Grant, soprattutto nell’utilizzo che ne faceva Hitchcock), alcuni eroi francamente inquietanti degli anni sessanta (Bond-Connery), e alcuni antieroi disperatamente fascinosi dei sessanta (Paul Newman, Robert Redford e la Stangata per tutti). La strizzata d’occhio di Soderbergh a tutta questa tradizione divistica serve in maniera perfetta un progetto in cui il divo è tale perché al di la dei codici, pienamente padrone non solo delle azioni che progetta, ma anche del proprio corpo e del fascino, della sensualità che dalle sue azioni promana. Un’identificazione in un certo modo ambigua (eroe=amorale per quanto questa verità sia abilmente e amabilmente celata), ma che consente allo spettatore di immedesimarsi nelle variazioni sul tema di Arsenio Lupin senza il minimo senso di colpa. A confermare questa piena esplicazione del potere divistico sulla pellicola stessa c’è da dire che i tre Ocean sono tra i rari congegni tecnologico-spettacolari hollywoodiani in cui gli attori si riservano una licenza di improvvisare con una continuità quasi da jam session e il loro divertimento dalla pellicola traspare eccome. Dunque il divo, colui che non è nemmeno più prigioniero della sua icona, come da luogo comune pericoloso sulle star della Hollywood classica, ma la gioca in assoluta souplesse. Che questo gioco sia vero o esibito con una punta di cinismo, di fatto funziona e questo conta. Ulteriore aggiunta al divertimento puro, in questo caso il gioco non contempla la presenza di nessuna star femminile, una sorta di contrappunto che limita da un lato la possibilità dei protagonisti e dall’altro ne indirizza i desideri, sfrondando la trama verso quello che poi è il suo centro spettacolare: il colpo grosso. Se nei primi due Ocean vi era un’equazione, avere i soldi quindi avere una donna, ma la donna diva aveva la possibilità di sfuggire ai perfetti progetti maschili di Brad Pitt e George Clooney, come dell’antagonista dei due attori, Andy Garcia, qui tutto il gioco si centra sul progetto di rapina, l’antagonista diventa consapevole alleato (rovesciamento dei ruoli) contro una seconda e più pericolosa nemesi, Al Pacino. E qui si torna al punto di partenza. Il successo di Ocean’s thirteen come degli altri due film che lo hanno preceduto, non sta solo nella libera possibilità degli attori divi di sfoderare fascino e charme, quasi che il film diventasse un appendice di un servizio fotografico, quanto sulla capacità dei divi stessi e dei loro personaggi di esercitare una messa in scena, di progettare, insomma di diventare registi. Se si volesse impostare una breve analisi del modo di strutturarsi dei tre film di Soderbergh, la struttura delle pellicole risulterebbe oltremodo semplice e lineare: presentazione non dei protagonisti, ma di ciò che essi emanano, vale a dire un mondo già descritto come falso e mitografico, se uno volesse dare un’interpretazione facile, Hollywood e i suoi miti vacui e pericolosi, ma immancabilmente affascinanti nonostante tutte le controindicazioni. Quindi, in secondo luogo, ricerca dell’obiettivo da colpire e descrizione di un sistema di sicurezza perfetto e impossibile da scardinare. Infine, descrizione del modo in cui gli autori del furto scardinano il sistema infallibile e riescono nel colpo. Detto in termini metacinematografici, abbiamo una cornice, la costruzione di uno spazio dell’azione, il modo in cui regia e attori scardinano questo spazio perfetto, vi penetrano e lo giocano. Ed ecco che il film che sembra funzionare solo per gli attori diventa invece un sottile gioco sulla messa in scena e sul modo di giocare con le regole di un genere scardinandolo e giocandolo al tempo stesso. Il “ludus” di Soderbergh diventa più chiaro quando si mettono in parallelo le ipotesi “film d’attore” (o della star) e “film di regia” (d’autore). Sembrerebbero due opzioni che, in un caso come questo, si escluderebbero a vicenda, oppure si annullerebbero nel bailamme spettacolare Hi tech. Invece possono tranquillamente convivere proprio perché la messa in atto di una rapina, corrisponde, nel gioco di Soderbergh, alla costruzione di una messa in scena perfetta, cioè ad una regia. I divi sono niente altro che gli attori i quali, messi di fronte al proprio stereotipo preferito, devono giocarlo con molta ironia, per cavarne qualche nota nuova e quindi sottrarsi alle logiche molto definite di un genere, di uno standard. Questa chiave di lettura si abbina a quella di Soderbergh regista che, confrontandosi con i macchinari della perfetta grana d’immagine hollywoodiana, prima costruisce un meccanismo perfetto, poi lo scardina, giocando con la moltiplicazione delle immagini (telecamere digitali, trompe l’oeil, etc). Insomma il bello di Ocean’s thirteen, è quello di ricostruire le regole di un gioco, il genere, che coinvolge regista, attori e spettatori e, attraverso il divertimento del gioco puro, trovare degli elementi di novità, la rottura del meccanismo perfetto e la rivivificazione delle immagini. E questo divertimento è il filo sottile di un progetto teorico.