Occhi di cristallo

L’uccello dagli occhi di cristallo
di Piero D'Ascanio


Venezia 61 - 2004
  Italia, 2004
di Eros Puglielli, con Luigi Lo Cascio, Lucia Jimenez


Eccoci di nuovo alle prese con il genere, croce e delizia del cinema italiano. Il thriller, nel nostro caso: delizia per ciò che fu, da Bava a Freda ad Argento; oggi, purtroppo, solo croce.
Il volenteroso Infascelli non è stato granché d’aiuto; peccato, perché Almost blue faceva sperare in una migliore sceneggiatura a venire per quello che era sembrato un buon occhio visionario, sebbene tra troppi ammiccamenti; ma Il siero della vanità vedeva totalmente disattese le speranze, tristemente infrante contro la delicatissima questione dell’uso del grottesco.
Occhi di cristallo è il terzo film di Eros Puglielli. Poco più che trentenne, il regista si era fatto notare per la sua opera prima, quel Dorme che nel 1999 aveva incuriosito e fatto ben sperare più di qualcuno. Anche Tutta la conoscenza del mondo, il secondo film, incuriosiva, seppur convincendo molto meno dell’esordio; ma rimaneva la piacevole sensazione che dietro la macchina da presa ci fosse qualcuno consapevole dei mezzi che la regia cinematografica mette a disposizione. Atteso al difficile varco del thriller a tinte forti, c’era di che essere meno disillusi del solito: il genere si giova d’una regia che rivendichi ad ogni inquadratura la sua presenza; bastava poi aggiungerci un fil di plausibile intreccio e un villain azzeccato (la ricetta non è mia, ovviamente) e il gioco era fatto.
Il film parte benissimo: siamo lontani da un’estetica povera o - peggio - televisiva, bensì una curata fotografia metallica pone le basi per un bel lavoro di trasfigurazione visionaria della realtà. In medias res, l’ispettore Luigi Lo Cascio è “pescato” durante un inseguimento, la fluida steadycam - ormai di prammatica in questi casi - è rimpiazzata da una nervosissima macchina a mano; l’inseguimento finisce, l’ispettore colpisce l’inseguito a sangue freddo, il collega esasperato gli urla contro; è un tipo tormentato, il protagonista del film, glaciale sempre e comunque, e ovviamente solitario; lo aspetta un killer particolarmente efferato, che lo metterà a dura prova.
Non ci si aspetti, a questo punto, una prova psicologica alla Manhunter per il personaggio interpretato con la solita professionalità dal bravo Lo Cascio; oppure, nello stesso Seven, la memorabile irruenza del David Mills di Brad Pitt unita alla travolgente disillusione del William Somerset di Morgan Freeman. La disarmante sceneggiatura di Franco Ferrini e del regista non gli riserva nulla di tutto ciò. Perché, semplicemente, non riserva nulla.
Purtroppo Occhi di cristallo dimostra in maniera flagrante una tesi che andiamo rimuginando da un bel po’ di tempo, e cioè che la lezione di Dario Argento non deve essere presa a modello. Il maestro italiano del thrilling rappresenta infatti un caso rarissimo: un autore che è riuscito, almeno fino a una decina d’anni fa, a far prevalere il lirismo e la furia del suo stile sulle sistematiche trappole narrative che lui stesso si autotendeva in fase di scrittura, trappole che avrebbero ucciso qualunque altro film, tanta era la mancanza di verosimiglianza o la sciatteria nel portare avanti il racconto. Quello che rimane il capolavoro del cineasta romano, Profondo rosso, è esso stesso minato da una madornale svista – sicuramente voluta e rientrante nel fantastico che pure anima l’opera – proprio nello snodare l’intreccio.
Puglielli si è pure preso l’abituale co-sceneggiatore del regista romano negli ultimi sciagurati film; il fatto che non si tratti di uno script originale ma di un adattamento - il film è tratto dal romanzo “L’impagliatore” di Luca Di Fulvio - non aiuta: sappiamo che la più grande storia può esser distrutta a contatto col medium cinema e infatti l’intreccio sviluppato dagli sceneggiatori risulta confuso e tirato via. Terribile il disegno dei personaggi, pallide figure che chiudono il film così come l’avevano aperto, mentre il cattivo di turno risulta quanto di più distante dal sopra citato modello di Hitchcock, che lo considerava elemento base di una buona riuscita nel genere: lezione tenuta a mente da tutti i migliori thriller degli ultimi tempi, a partire proprio dai citati Manhunter e Seven. Ovviamente Puglielli di suo non ci mette la direzione attoriale, fedele al modello argentiano. Per fortuna compensa con virtù di regia: il film colleziona più di qualche momento ben riuscito e almeno una bellissima sequenza thrilling, quella dell’assassinio della dottoressa; l’atmosfera di tutta la parte centrale è poi nel complesso suggestiva, con l’arrivo di quell’interminabile pioggia che accompagnerà la storia fino alla sua conclusione e che aiuta l’universo filmico a trasformarsi gradualmente nell’incubo che deve essere. Il tutto, però, non rimane in piedi fino in fondo, trovando inadeguata - oltre che fiacca - conclusione nella “casa” del finale.
Non giova all’insieme la mancanza di una colonna sonora azzeccata; il thriller lavora (sul)lo spettatore, ed è un peccato mortale dimenticarsi delle potenzialità della scansione sonora e lasciare così la ricettività sensoriale del pubblico per metà addormentata. Senza ritirare in ballo Argento - davvero un maestro in questo - pensiamo all’ultimo Sorrentino, e a quanto aggiunga ad un film già bellissimo un grande lavoro sulla musica.
Non abbiamo mai creduto che esistesse un erede di Argento; Pupi Avati, il cui primo horror compete coi migliori italiani di sempre, ha abbandonato quei toni, lui che era una validissima "alternativa rurale" al metropolitano autore romano; Soavi ha rinunciato al suo non comune talento visionario per darsi alla televisione e, terribile dictu, si vocifera che lo stia per seguire anche il suo maestro.
Crediamo nel genere e in quello che può fare all’interno di una cinematografia come la nostra; ma con un quadro così, ci sembra difficile essere ottimisti.