il Nostro Natale

Elogio dello spiazzamento
di Stefano Finesi

 
  'R Xmas, Usa, 2001
di Abel Ferrara, con Drea de Matteo, Lillo Brancato, Lisa Valens, Ice-T


Innanzitutto, una nota di colore: Il nostro Natale è stato distribuito a Roma in una sola sala, a fronte di oltre 200 schermi. Che gli esercenti approfittino delle feste per incassare con prodotti a colpo sicuro è più che legittimo, ma resta un mistero la scelta della distribuzione di lanciare il film proprio ora, a meno che il titolo stesso sia stato ritenuto a tal punto vincolante da obbligarne lo sbaraglio nell’arena natalizia. Ed è un peccato, perché Ferrara, autore difficile e comunque dagli esiti discontinui, appare veramente in stato di grazia: dolente e ironico al tempo stesso, lucido e controllato come poche altre volte, anche nella consapevolezza di girare un film “piccolo”, senza le ambizioni narrative di Fratelli, né quelle estetiche di New Rose Hotel, ma capace tuttavia di contenere le suggestioni di entrambi.
Il Natale del titolo appartiene a una famiglia apparentemente tranquilla della New York dei primi anni novanta, ancora non addomesticata da Giuliani: lui e lei con la bambina da andare a vedere alla recita scolastica, la bella casa a Manhattan, l’intesa sentimentale perfetta. L’origine sudamericana di entrambi però tradisce qualcosa in più, visto che scopriamo presto che per campare i due gestiscono un grosso giro di droga, tagliata e imbustata personalmente in un appartamento in periferia e rifilata per la vendita al dettaglio a un manipolo di pusher neri. Qui Ferrara assesta il primo colpo: la famigliola borghese è in realtà un’organizzazione criminale. Ma è un colpo morbido, perché questa seconda vita è illustrata pacatamente nella sua pratica quotidiana (il lungo viaggio in macchina verso la casa in periferia, la meticolosa preparazione delle bustine), come se il commercio non avesse nessun risvolto violento-adrenalinico, ma solo la routine di una rispettabile occupazione.
Poi il protagonista viene rapito da un gruppo di poliziotti corrotti, che chiedono un riscatto alla moglie: lei si ingegna per trovare i soldi, è disperata, ma alla fine la spunta e lui può tornare tranquillamente a casa. Anche qui Ferrara sceglie di gestire l’episodio sottotono, senza mai far percepire allo spettatore una sensazione di reale pericolo o una vera accelerazione drammatica. Riunita la famiglia, lei chiede a lui di rinunciare alla vita che hanno fatto finora: è redenzione? Sembrerebbe di sì, ma c’è troppo poco tormento, conoscendo Ferrara.
Durante una mondana festa di Natale, il protagonista viene chiamato fuori da due sgherri apparentemente innocui: hanno tagliato la testa di uno dei rapitori. Gli altri, come informa il telegiornale, sono stati arrestati in quanto scoperti come poliziotti corrotti. Il capofamiglia, insomma, è un vero boss, spietato, sanguinario e con buoni agganci politici, che non ha fatto che ristabilire l’ordine delle cose. Il ribaltamento stavolta è forte, tanto più che lo spettatore ha assunto nella parte centrale del film il punto di vista della moglie, che conosce solo una parte della verità e rimane con l’illusione che si possa cambiare vita, lasciandosi alle spalle l’avventura della droga come un gioco redditizio e temporaneo. La famiglia vive quindi a tre livelli percettivi: la figlia incosciente, di cui viene accuratamente preservata l’innocenza; la moglie a conoscenza solo di una parte della verità e pronta a ritirarsi alla prima esperienza traumatica; il marito unico vero conoscitore e conduttore del gioco, capace di una dissimulata ferocia. L’intreccio dei tre livelli coinvolge a turno lo spettatore (non è un caso che l’inizio ruoti tutto intorno alla recita della bambina e alla ripresa che le viene fatta), e quello del padre è il più sfuggente e difficile da penetrare, come indica il fatto che il suo punto di vista sull’episodio del rapimento giunge solo nei frammenti sparsi di un flashback. Come già in Blackout e New Rose Hotel (vedi anche l’uso costante del video come ulteriore porzione di verità-menzogna), Ferrara inscena il dramma progressivo della conoscenza, anche se stavolta con toni meno marcati: Matthew Modine ritrovava in un filmato la responsabilità rimossa in un omicidio, Willem Defoe poteva solo tentare di ricostruire la memoria lacunosa della sua storia con Sandii, costringendo paradossalmente lo spettatore ad assistere due volte allo stesso (?) film. Ne Il nostro natale il gioco si ripete, meno complesso e drammatico, ma ugualmente condotto sul filo di un continuo spiazzamento, su una filosofia della visione consapevolmente frammentaria e sfuggente, in cui personaggi e spettatori fanno i conti con strati sempre diversi di realtà, mai veramente esplorabili fino in fondo e sempre, necessariamente, legati a una trauma impossibile da assimilare. È ancora qui, al di là di uno strombazzato maledettismo, che preferiamo misurare la portata destabilizzante del cinema di Ferrara.