Non bussare alla mia porta

Happy Paris, Texas
Di Adriano Ercolani

 
  Don't Come Knockin', USA, 2005
di Wim Wenders, con Sam Shepard, Jessica Lange, Tim Roth, Sarah Polley, Gabriel Mann, Fairuza Balk

Vent’anni dopo Paris, Texas, il capolavoro che consegnò loro la Palma d’Oro a Cannes, Sam Shepard e Wim Wenders si sono nuovamente riuniti per realizzare un’opera che può essere considerata in tutto e per tutto un aggiornamento di quella prima esperienza, e non solo. Il canovaccio della storia è praticamente lo stesso, ed uguale è anche la necessità di raccontare lo spaesamento di un logorato protagonista di fronte ai propri errori ed alla propria coscienza. Anche l’ambientazione è praticamente identica all’altro: prima i luoghi deputati del West, della grande frontiera americana, poi una cittadina di provincia ugualmente ampia, in cui ci si può perdere alla stessa maniera del deserto delle grandi vallate – mi ha giustamente fatto notare il mio collega Ilario Pieri che nell’inquadrare la città Wenders, da grande fotografo quale è, paga il suo elegante tributo alla pittura di Edward Hopper-.

Cosa cambia dunque in Non bussare alla mia porta rispetto a Paris, Texas? Un elemento fondamentale, e cioè l’approccio al tema trattato. Tanto doloroso, simbolico e stilizzato era stato il primo, quanto gioiosamente “leggero” si presenta questo nuovo capitolo. La sensazione precisa è che entrambi gli autori abbiano voluto ritornare su questa vicenda alla luce però di un’esperienza che ne ha placato la loro spinta drammatica: evidentemente in qualche modo i due hanno fatto i conti con i “demoni del cinema” che li hanno spinti alla realizzazione del primo film, tentando adesso un accostamento più distaccato ed ironico. Non bussare alla mia porta infatti sciorina tutti gli stilemi del melodramma, ma li mette in scena attraverso una stilizzazione formale e contenutistica che spesso li porta verso la rarefazione: il vuoto di emozione delle scene che in teoria avrebbero dovuto essere quelle maggiormente patetiche viene sostituito da un tono di surreale bizzarria, che più che alla comicità esplicita spesso porta al sorriso disteso; sotto questo punto di vista il personaggio che sembra portare in sé il tono preciso del film è quello di Sarah Polley, ragazza placida ed apparentemente fatalista che affronta gli eventi della storia con la calma della sua maturità interiore. Attraverso lei Wenders e Shepard sembrano voler esplicitare al pubblico il loro nuovo modo di vedere il tutto, compreso il protagonista Howard Spence. Pieno di scene di notevole ariosità ed allegria sotterranea, Non bussare alla mia porta travalica dunque la suggestione del melodramma per tentare la via discreta e sussurrata della commedia; non tutto riesce, a dire la verità: nella parte centrale del film ci sono una ventina di minuti in cui il ritmo narrativo si appesantisce più del dovuto, ed in alcune scelte di regia Wenders si incaponisce in una ridondanza stilistica che a tratti richiama i suoi ultimi lavori. Per il resto però il film è decisamente suggestivo, sia in molte splendide immagini che in alcuni momenti di forte intensità emotiva (molto merito va distribuito anche agli attori).

Suadente e disteso, Non bussare alla mia porta potrebbe dunque testimoniare una nuova maturità del regista tedesco, deciso forse a “smitizzare” attraverso la leggerezza alcune figure del suo cinema: oltre che il già analizzato rimando a Paris, Texas, altre caratterizzazioni nel film si pongono come “variazioni sul tema”: lo spassoso detective interpretato da Tim Roth strizza l’occhio a quello di Mel Gibson in “Million Dollar Hotel”, ed anche la giovane Sarah Polley sotto molti punti di vista sembra una cresciuta “Alice nelle città”, ormai consapevole e matura.