Monster
Antigone è condannata ancora
di Claudia Russo

 
  id., Usa, 2003
di Patty Jenkins, con Charlize Theron, Christina Ricci, Bruce Dern


Ci sono infinite possibilità di vivere l’amore; infiniti modi di raccontare il dolore; nessuna speranza di uscire dall’Inferno, se a questo ci hanno condannato e in questo siamo nati e cresciuti.
La dannazione è qualcosa di molto più banalmente e spudoratamente presente di quanto siamo soliti credere, o voler credere.
Nelle Sacre Scritture ‘Dannato’ è colui che non ha fede. Nella vita, che è sacra senza bisogno di scriverla, ‘Dannato’ è colui che non ha prospettive, colui che ricorre alla violenza perché non conosce altre forme di espressione, colui che non può esser se stesso perché altri hanno scelto al suo posto.
Prendiamo queste semplici osservazioni e attribuiamo loro un sesso: quello debole, ad esempio.
Otteniamo la più infernale, oscena (ob-scenam), indecente e indegna figura femminile dei nostri tempi, di quelli che furono e che sempre saranno: la Puttana.
Aileen Wuornos fa questo mestiere da quando era bambina, da quando ha imparato a barattare “un sogno per un pompino”, “una speranza per una scopata”. Il corpo irriconoscibilmente gonfio e invecchiato dell’ex modella Charlize Theron racconta questa storia che l’esordiente Patty Jenkins ha raccolto dalla strada per farne un film, una rappresentazione crudele, drammatica, a tratti fastidiosa.
Protagonista: una donna antagonista; una donna regista; una donna.
Questo il primo limite di un’opera che tende all’universalità ma che troppo resta legata ad un fatto di cronaca che quattordici anni fa scosse l’opinione pubblica americana, ma che fu presto archiviato.
Aileen scopre l’amore una notte, per caso, quando conosce la ventiquattrenne Tyra Moore che nel film si chiama Selby ed è eccessivamente ‘romanzata’ e alterata nella figura dall’interpretazione che ne dà la pur volenterosa Christina Ricci.
Certo, Selby ha anche lei la sua buona dose di disperazione dovuta a quella maledetta, intima passione per il suo stesso sesso…ma tutto sommato il suo corpo non conosce la violenza, i suoi occhi non hanno visto l’orrore, le sue orecchie non hanno udito il silenzio dopo lo sparo.
Un fervore irrazionale, un’intesa inaspettata e un sogno di libertà e riscatto in comune, bastano ad innescare il tristemente ben noto meccanismo à la Thelma e Louise.
Ma se nel celebre dramma firmato Ridley Scott le due eroine compivano insieme l’ultimo grande salto testimoniando con tale gesto il sincero disprezzo per questo mondo e la fiduciosa speranza in un’altra esistenza (insieme); la condanna di Aileen suona assai più cruda e definitiva perché imputabile al giudizio umano, all’ arbitrio della legge che definiamo ‘civile’.
E se è vero che in entrambe le pellicole c’è la presenza del buono di turno che tenta di comprendere le ragioni profonde della perdizione, altrettanto vero è che sia il vecchio amico di Aileen, sia il poliziotto Harvey Keitel del film del 1991 non riusciranno a compiere il miracolo.
La mente, allora, ripercorrere l’ampia sezione delle opere cinematografiche che hanno trattato l’argomento pena di morte e, nel caso specifico di soggetti femminili: si passa da Ballando con uno sconosciuto (M. Newell, G.B. 1985), che racconta la storia di Ruth Ellis, ultima donna condannata a morte in Inghilterra, fino al recente Dancer in the dark (Palma d’oro a Cannes 2000) in cui una sorprendente Bjork si lascia condannare da uno spietato Lars Von Trier.
Ma prima ancora, e non mi si dica che sto scavando troppo a fondo, (perché quando si scava si deve per forza affondare…), voglio concedermi una sosta nel ricordo della più pietosa delle donne della storia occidentale laica, della più disperatamente passionale delle creature generate dalla mente umana: Antigone.
La figlia d’Edipo è la legge del cielo contro la legge della terra; è phisis contro nomos.
Ed è a quella tragedia sofoclea del V secolo a.C. che mi viene da pensare ogni volta che oggi, maggio 2004 D.C., mi trovo a riflettere non tanto sulla legittimità della pena di morte, quanto piuttosto sulla sua natura, la sua essenza, la possibilità stessa di concepire un sistema di giudizio tutto terreno, corruttibile ed effimero che sfoci alla fine nel più sconvolgente e immutabile degli epiloghi: la morte.
E per onorare la morte del fratello Polinice, caduto in battaglia contro Eteocle (stesso sangue dei due), Antigone disobbedisce alle leggi dello Stato per seguire quelle divine, quelle della coscienza. Compiuto il rito della sepoltura, la donna si consegna alla propria morte accettando questa volta, con il proprio sacrificio, di sottostare a quelle stesse leggi che prima aveva infranto. La morte è inevitabile.
Monster parla di questo: parla di fedeltà e tradimento; di attacco e difesa, di scelta e responsabilità.
L’ex ragazza Martini, indimenticabile nel suo tubino che si sfilava via al morbido ondeggiare dei fianchi, dimostra di esser diventata una brava attrice pur non riuscendo ad evitare, e qui il dito è puntato forse contro l’inesperienza della regista, alcuni “tic” eccessivamente reiterati e quindi poco credibili.
Ma questo della Jenkins non è un film realista. E’ un film di estrema, evidente, ricercata finzione. E non a caso ha vinto l’Oscar…