Mission: impossible 2

Doppia visione
di Adriano Ercolani e Luca Persiani

 
  id., Usa, 2000
di John Woo, con Tom Cruise, Dougray Scott, Thandie Newton, Ving Rhames

7 luglio 2000
di Adriano Ercolani


Evitiamo un inutile spreco di parole e partiamo subito dalla conclusione, cioè dal giudizio complessivo sul film: usciti dalla sala ci siamo accorti immediatamente che Mission: impossible 2 ci ha sicuramente divertito, ma allo stesso tempo ci ha lasciato non poche perplessità. Il dubbio maggiore che ci rimane è che secondo noi le due star del film, il protagonista Tom Cruise e il regista John Woo, sono tra loro incompatibili: o meglio, è incompatibile il loro modo di fare cinema. Dato per scontato che questa pellicola appartiene più all’attore (anche produttore...) che all’autore, non siamo riusciti proprio a capire come si sia potuto pensare di miscelare coerentemente questa coppia. Non bisogna sottovalutare infatti che a capo dell’operazione abbiamo Cruise, che quando si dimentica di essere un buon attore e vuole fare soldi, non va tanto per il sottile (è il caso di ricordare Top Gun, Giorni di Tuono, ecc. ecc.?): preferisce piuttosto puntare, adesso che può permetterselo, su prodotti di fattura comunque pregiata, di ottima qualità tecnica, possibilmente diretti da registi che gli garantiscono lustro; pensiamo subito allora ai suoi lavori con Sidney Pollack, Neil Jordan, addirittura il Martin Scorsese “commerciale” de Il Colore dei Soldi; in questo senso comunque l’esempio più lampante rimane proprio il primo capitolo delle avventure dell’agente segreto Ethan Hunt, diretto da Brian De Palma: un film non memorabile, ma divertente, ben orchestrato, soprattutto piuttosto omogeneo nell’essere sia un film “alla Cruise” che nel lasciare spazio di manovra alla genialità di De Palma; il suo stile, suadente e pirotecnico allo stesso tempo, ben si è accordato con le esigenze di un prodotto spettacolare e di largo consumo, come richiedeva l’operazione. Lo stile di Woo invece è decisamente diverso, in quanto punta su un virtuosismo meno cerebrale e più di impatto emotivo (questo non vuole essere un giudizio di merito, ma soltanto l’analisi di una scelta poetica e stilistica). Mettendola così potrebbe sembrare allora che il secondo sia maggiormente compatibile del primo a girare un action-movie come questo; a nostro avviso invece in questo caso Woo, che ama caricare, esagerare, dirompere con il montaggio, gli effetti, la musica, ha sviluppato un discorso visivo così magnificamente barocco che è troppo “avanti” per un’operazione del genere. L’ambiguità delle sue storie poi, dove il bene e il male si confondono, dove la redenzione ed il lieto fine, le poche volte che ci sono, non sono mai consolatori ed edificanti; tutti questi elementi appunto mal si mescolano con le necessità implicite ad un’opera come Mission: impossible 2. Prendiamo, come paragone, il magistrale Face/off, film precedente del maestro orientale: in questo grande affresco non solo ogni scena d’azione, ogni balletto di pistole, ma anche ogni ralenty, sono pieni di pathos, di un valore emotivo contraddittorio ma potente, che testimonia perfettamente sia il valore dei suoi protagonisti che l’idea di cinema del regista. Le stesse grandi doti di metteur en scène, trasportate sul set del film con Cruise, mantengono la loro estrema bellezza visiva, ma inevitabilmente perdono di impatto emotivo (o quantomeno “eversivo” rispetto al cinema americano contemporaneo).
Sia ben chiaro, non è che il Mission: impossible 2 di Woo sia inferiore all’antecedente, anzi forse gli è superiore (alcuni momenti sono visivamente clamorosi, degni del miglior Woo), ma rimane un film a metà, non una perla dell’autore di the Killer, non un classico prodotto di evasione stile action-movie, che passa e se ne va in due ore.
Il grosso interrogativo, che ci lascia comunque un barlume di speranza, è questo: ne sarebbe venuto fuori un film più omogeneo e ben strutturato se la sceneggiatura non fosse stata scritta da un bambino di due, tre anni al massimo? Ne conseguono altre domande: che cosa è successo a Robert Towne, sceneggiatore che amiamo da sempre? E’ forse deceduto e non se ne è accorto? Già il suo script per la prima puntata ci aveva fatto storcere il naso, ma questo è addirittura insostenibile, da farci imbufalire. Storia bislacca, personaggi che a mala pena riescono ad arrivare a dire battute coerenti, profondità psicologica indegna anche per un cartone animato, e soprattutto un cattivo di turno (fondamentale nei film di Woo, dove tutti in fondo sono “cattivi”) che diventa una parodia involontaria appena si toglie la maschera di Tom Cruise, nella prima scena... Un altro grave errore della sceneggiatura sta anche nel non aver dato il giusto spazio ai personaggi secondari, per i quali tra l’altro sono stati reclutati ottimi caratteristi del calibro di Ving Rhames e sir Anthony Hopkins: l’unica a mettersi in luce è Thandie Newton, grazie più alle sue doti estetiche che alla sua recitazione (del cui valore assoluto peraltro non dubitiamo).
A questo punto non possiamo non lanciare un appello: istituiamo, tramite colletta e donazioni varie, un fondo per gli sceneggiatori americani, in modo che, quando devono lavorare ad un blockbuster o anche su commissione, non stiano a pensare a quanto guadagneranno più che a sviluppare una storia. A rifletterci meglio, forse è quasi un miracolo che Cruise e Woo siano riusciti a tirarne fuori una pellicola del genere…
Soltanto errori e fallimenti dunque per l’accoppiata Cruise-Woo? No, per carità! Tra i molti difetti, la pellicola offre anche qualche momento di grande cinema: evidenti tracce del talento dell’autore sia all’inizio del film, come ad esempio la scalata di Hunt a mani nude delle montagne dello Utah, ripresa con grande maestria; oppure, e non poteva essere altrimenti, ogni inquadratura di ogni scena d’azione, con tanto di classiche auto-citazioni come le colombe o gli inseguimenti attraverso mezzi motorizzati (stavolta tocca alle motociclette). Il livello tecnico di Mission: impossibile 2 è senza dubbio di prim’ordine, ed anche gli attori si impegnano nelle rispettive parti. Precisato questo, rimane a maggior ragione l’amaro in bocca per ciò che l’opera poteva essere e non è stata: ma probabilmente sarebbe servito un altro tipo di progetto per trasformare le avventure dell’agente Hunt in un film “alla John Woo”. Probabilmente un progetto senza Tom Cruise.


28 agosto 2000
di Luca Persiani


Jean-Marie Straub e Danièle Huillet (Cronaca di Anna Magdalena Bach, 1967, Sicilia!, 1998) hanno scelto di fare un cinema che programmaticamente svuota e sottrae da se stesso tutti quegli elementi che lo rendono spettacolare, arrivando quasi a minacciare l’essenza stessa del mezzo; i movimenti di macchina, le dinamiche cinetiche, la costruzione empatica dei personaggi, le immediate emozioni della storia vengono asciugate completamente. L’obiettivo, con uno sforzo estetico rigorosissimo e non sempre comprensibile, è di arrivare ad sintetizzare lo spettacolo e a farne un oggetto brechtiano che consenta allo spettatore di fumare a teatro, osservare e godere la rappresentazione senza essere completamente travolto dalle emozioni.
Non si può certo attribuire questo obiettivo spartano al cinema di John Woo, che generalmente crea, al contrario, delle epiche melodrammatiche e coinvolgenti; sta di fatto però che Mission: impossible 2 fa sul materiale filmico un lavoro molto simile. La sceneggiatura iperlineare di Robert Towne, l’inesistenza della caratterizzazione dei personaggi, la piatta prova attoriale dei protagonisti e la non riuscita progressione drammatica della storia sono tutti elementi che, essendo inefficaci, non contribuiscono a creare e sostenere il film. Al contrario, costruiscono una specie di struttura vuota, e asciugati da ogni possibilità di essere interessanti, lasciano il campo al vero obiettivo del film, che è quello di creare un discorso puramente astratto, ritmico. Una specie di onda visiva e sonora che sussulta e vibra unicamente attraverso le immagini, un movimento emotivo nella coscienza guidato dagli spostamenti dello spazio di corpi, oggetti e suoni. John Woo ha sempre creato degli stupefacenti balletti di spazi, ma è la prima volta che si spinge a riprenderne uno per intero, una specie di action musical.
A partire dalla splendida sequenza iniziale che è un’impeccabile dimostrazione dell'efficacia di quello che André Bazin chiamava “montaggio proibito”, il film si svolge sotto continue accelerazioni e decelerazioni, a volte impercettibili, con un’eleganza di regia che lascia tramortiti. Woo si permette perfino di asciugare e quasi annullare quello che è uno dei suoi marchi di fabbrica, la sparatoria barocca, facendo di una delle scene importanti del film (il raggiungimento e la distruzione del virus Bellerofonte) una sequenza pulitissima e sintetica, riservandosi di lasciare un momento di rallenti carico di forza al salto di Tom Cruise nel vuoto.
Woo riempie lo spazio lasciato da sceneggiatura, personaggi e attori con uno sforzo di regia che col suo controllo e il suo preciso andamento ritmico trasforma il film in uno dei più costosi, popolari e complessi esercizi autoriali del cinema contemporaneo. Questa danza sconvolge l’ambito dell’action movie classico e lo lascia privo di alibi. Non un buddie-buddie, non una storia d’amore, non un melodramma epico, ma il semplice utilizzo dello spazio come mezzo espressivo efficace in se, capace di creare tensione per tutta la pellicola mentre tutti gli altri elementi della messa in scena (attori, dialoghi, arco narrativo) si segnalano per inefficacia.
Il senso di Mission: Impossible 2 sta nell'offrire allo spettatore il décolléte di Tandie Newton decollato dal suo personaggio, poiché il glamour quasi bondiano di quest’ultima impedisce qualsiasi tentativo di empatia per il suo contagio o per la sua relazione con Ethan Hunt. Oppure nell'avvilirci con abusati colpi di scena e contemporaneamente esaltarci con l’immagine di una colomba che attraversa lo spazio appiattito e teso di un torvo Tom Cruise rallentato alla riscossa. Questa scelta vincente spazza via in un colpo solo tutti i triti schemi narrativi a cui l’action ci aveva abituati e crea un oggetto unico, una pistola che con un calcio si innalza verticale nello spazio, due motociclisti che si abbracciano per uccidersi saltando dai loro veicoli lanciati nell’aria.
L’azione trascende il racconto per narrarci unicamente di sé, riuscendo ad emozionare profondamente.