the Missing

Il lato oscuro del nazional-popolare
di Luca Perotti

 
  Id., Usa, 2004
di Ron Howard, con Cate Blanchett, Tommy Lee Jones, Aaron Eckhart, Evan Rachel Wood


Non ci sono cowboy nel Far West di Ron Howard, se si esclude Brake Baldwin/Aaron Eckhart che, inibito e eclissato dalla personalità invasiva di Maggie/Cate Blanchett, sparisce presto dalla scena, a ridosso del prologo, un po’ prolisso, del film.
E anche gli indiani schivano i canoni prestabiliti: la fierezza pellerossa, il forte senso di appartenenza alla stirpe lascia il campo ad uno sparuto gruppetto di mercenari impostori assoldati dalla cavalleria, a sua volta rinnegata. Fanno la comparsa ‘redskin’ acquisiti e l’indiano più autorevole è uno stregone demoniaco che incarna l’abiezione di una razza alla deriva in un West dominato dalla logica dello smercio e da un radicato sentimento razzista.
Fanno eccezione due Apache del ceppo chiricahua che Maggie e suo padre incontrano sul cammino di espiazione (da colpe e pregiudizi) e di liberazione (della figlia rapita che sta per essere venduta ai laidi messicani). Il viaggio si compie sullo sfondo di una natura mutevole (fotografata da Salvatore Totino con eccesso di effetto cartolina e di ausili digitali) che tuttavia risulta meno impervia dei rapporti che regolano una civiltà allo sbando in cui la necessità più impellente corrisponde ad un istinto di autodifesa ad oltranza dei propri valori, anch’essi mutevoli: per Maggie il valore primario è la conservazione della famiglia; per Samuel/Tommy Lee Jones, ‘desperado’ e traditore, è invece la depurazione della sua anima con relativa espulsione del senso di colpa (il veleno del serpente a sonagli) per aver abbandonato la famiglia; per gli indiani mercenari è invece il tornaconto economico per il quale hanno barattato la loro dignità.
Sebbene il motore narrativo di the Missing sia, di fatto, la riconciliazione del rapporto tra un padre vigliacco e una figlia/madre (lei sì, una vera cowgirl!) coraggiosa e incazzata nera dall’inizio alla fine, ad emergere sono soprattutto le concomitanti bipolarità tra ordine e disordine, e tra isolamento e collettività.
Lo sdegno di Maggie verso il padre si estende ad un intero mondo selvaggio e saturato di viltà nei confronti del quale la donna ha maturato (e trasmesso alla figlia più grande) un forte sentimento di intolleranza e ostilità. Ron Howard descrive un Wild West (ma è verosimile leggervi, nemmeno tanto tra le righe, una riflessione ‘media’ e vagamente semplicistica sullo stato attuale della società moderna) in cui il livello di rabbia e di attenzione ha superato i limiti consentiti e in cui prevale l’individualismo, la lotta per la tutela di se stessi, e in cui coloro che sono adibiti alla salvaguardia dell’ordine risultano inefficienti: i soldati dell’esercito sono dediti allo sciacallaggio e uccidono per un nonnulla; a Maggie vengono negate protezione e collaborazione perché gli uomini dello sceriffo sono impegnati nel servizio d’ordine della festa del paese, e via dicendo.
Il viaggio di Maggie è un viaggio nel disordine che ha come unico scopo il ritorno repentino a casa (“Let’s go home!” è la frase con cui si conclude il film), nella trincea dell’isolamento, nell’ordine di un nucleo famigliare la cui priorità è quella di tenersi lontani dalla minaccia.
Alla base dell’individuo medio, secondo Ron Howard, c’è sostanzialmente il tradimento dei propri valori e delle proprie origini; i corpi e le anime sono alterate e meticcie e il bisogno primario è trovare un rifugio per sopportare la paura dell’altro.
Anche se la morte può arrivare subdolamente, per vie traverse, sui sentieri invisibili della magia nera.
In questo senso, il perfido rito sciamanico attuato dal butterato stregone Apache e gli altri richiami diegetici al soprannaturale, assomigliano ai tormenti schizofrenici di John Nash in A Beautiful Mind: il cinema nazional-popolare di Ron Howard subisce ancora la seduzione del male, del lato oscuro che cerca la fessura giusta, l’incrinatura ideale per inserirsi nella confezione patinata di maniera.
Si tratta probabilmente di un conflitto irrisolto: sembra quasi che Howard senta il pressante bisogno di protocollare la menomazione nel mondo, il suo risvolto sinistro. Anche se il disordine brulica abitualmente nelle retrovie di un cinema medio e digeribile, schiavo della sua ‘rotondità’ ma pronto a lanciare un’occhiata furtiva e piena di sgomento alle asperità scabrose, alle sporgenze ignote e raccapriccianti.
Nella sequenza più avvincente del film, il duello a distanza tra due pratiche magiche, una letale, l’altra benigna, si conclude con la vittoria di quest’ultima in un simbolico ballottaggio che fornisce un’indicazione ulteriore sui fantasmi interiori del cinema di Ron Howard. Un cinema che ama ferirsi, per confermare la sua capacità di guarire (e Maggie, protagonista del travaglio nella contesa tra le due fatture magiche, è del resto una guaritrice), di ristabilire la sua sana e robusta costituzione dopo aver sperimentato l’abisso del perturbante, e prima del fatidico, irrinunciabile, fondamentale ritorno tra le benevoli pareti domestiche.