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Mio fratello è figlio unico
Italia, 2007
di Daniele Luchetti, con Elio Germano, Riccardo Scamarcio, Angela Finocchiaro, Luca Zingaretti, Anna Bonaiuto

Fratello dove sei…
recensione di Paola Galgani



Il film è tratto dal romanzo "Il fasciocomunista"’ di Antonio Pennacchi, ambientato negli anni ‘60 a Latina, città dal sapore fascista. Protagonisti due fratelli, come spesso capita molto diversi fra loro ma in un certo senso complementari: Accio, attaccabrighe e idealista, vuole a tutti i costi farsi notare, mentre Manrico, il maggiore, carismatico e sicuro di sé, si sforza di essere più protettivo ma in realtà è distante (c’è anche una sorella ma, come allora capitava, piuttosto invisibile). Dall’inizio siamo dalla parte di Accio che, per affermare la sua esistenza, scappa di casa da piccolo, si lascia tentare dal misticismo e poi dai due poli opposti del fascismo - complice l’amico più grande Mario - e del comunismo, in cui il fratello era già implicato in modo radicale. I due ragazzi si scontrano e si incontrano, metaforicamente e fisicamente, per tutto il film, procedendo con gli anni fino ad un finale aperto, nel cui futuro forse si delinea finalmente per Accio una riconciliazione con sé stesso e con gli altri.
Daniele Luchetti gioca molto sulla fisicità degli attori, cui si avvicina con la macchina da presa come non visto, ed assegna loro molta libertà nello spazio regalando freschezza all’insieme. Lo scopo non è tanto quello di rappresentare un’epoca in modo perfetto e paludato (obiettivo che sarebbe stato tra l’altro molto più costoso) ma semplicemente di farla immaginare, con toni leggeri e ironici. Non ci sono sbavature, il racconto di quegli anni è condotto con tenerezza e nostalgia verso un tempo perduto in cui c’era una maggiore ingenuità ma non mancava l’energia, singola e collettiva, indipendentemente dal verso in cui veniva diretta. Questo però, ammonisce il regista, non significa qualunquismo, e se è vero che ognuno credeva di essere nel giusto, doveva pur esserci da qualche parte l’errore… ed il regista fa ben capire come la pensa, evidentemente come uno dei tanti "critici e gente di cinema…" verso i quali inizialmente Accio rivolge il suo scherno. Gli sceneggiatori sono gli stessi de la Meglio gioventù Sandro Petraglia e Stefano Rulli, per cui non si può non ritornare a quelle atmosfere; il ’68 però qui è simboleggiato da un piatto di tagliolini al brodo di mamma, mangiati davanti alla televisione, e se non appaiono i grandi cortei come si era pensato in un primo momento, la scena del concerto di Beethoven "depoliticizzato" è rappresentativa degli entusiasmi e di certe semplicità dell’epoca. Sia la destra sia la sinistra sono prese di mira nei propri tratti più grossolani, evitando però il rischio di disegnare delle macchiette. Ecco così venir fuori personaggi forti e credibili, a partire dal protagonista Accio, che introdotto con intensità ed humour nelle scene iniziali grazie alla vitalità del giovane Vittorio Emanuele Propizio, viene poi assumendo dei tratti alternanti tra debolezza e durezza, con la costante dell’ inquietudine che era poi una caratteristica dell’Italia di quegli anni, di cui il ragazzo diventa involontariamente simbolo. E diventa finalmente adulto quando il suo idealismo lascia il posto all’azione, con il furto delle chiavi: maturazione che forse per il suo paese non c’è mai stata. Il personaggio di Manrico invece rimane più monocorde e prevedibile, più che altro aderente alla sua funzione di fratello maggiore che deve - o dovrebbe - dare in qualche modo l’esempio. Al centro del film, differentemente che nel romanzo, è proprio il rapporto tra fratelli, in cui l’affetto mescolato alla rivalità, all’invidia, all’immancabile divisione di ruoli, fanno "a pugni" tutto il tempo, affidando ad una fisicità oggi dimenticata il compito di esprimere i sentimenti. Apprezzabile la spontaneità dell’intero cast, evidentemente ben diretto: da Elio Germano, intenso, divertente e commovente, a Scamarcio perfettamente a suo agio nel suo ruolo, a Zingaretti che, in un ruolo non facile, riesce nella difficile impresa di farci compatire il "nemico". Le musiche, che vanno da Nada a Little Tony, adottate in modo inconsueto contribuiscono all’intensità di alcune scene; non compare la canzone di Rino Gaetano che dà il titolo al film perché il regista non ha ritenuto insistere troppo sul tema.