Lord of war

Memorie di un venditore di kalashnikov
di Emanuele Boccianti

 
  id., Usa, 2005
di Andrew Niccol, con Nicolas Cage, Ethan Hawke, Bridget Moynahan, Ian Holm, Jared Leto


L’ultima fatica del regista neozelandese è un lavoro che con una certa difficoltà si potrebbe situare sulla stessa linea delle sue precedenti opere. Il Niccol che conoscevamo finora era quello di Gattaca, di S1m0ne, della sceneggiatura di The Truman Show. Chi lo apprezzava, con ogni probabilità sapeva di cedere almeno un po’ al piacere assolutamente pittorico del suo cinema. Lord of War viaggia su registri decisamente differenti, e l’impatto non è irrilevante. I numeri sulla carta ci sono: c’è Amir Mokri alla fotografia (si va da Blue Steel della Bigelow fino al pirico Bad Boys II della coppia Bruckheimer/Bay); c’è Zach Staenberg al montaggio (Matrix), e considerando che si tratta di una produzione indipendente, forse tra le più costose, non è poca cosa; insomma, agli occhi questo film arriva, non ci sono dubbi. Niccol esibisce raffinate soluzioni visive di quando in quando, dispiegando mezzi e risorse che dimostrano quanto abbia creduto nella bontà del suo progetto. Le passeggiate che fa Yuri Orlov/Nicolas Cage tra le sterminate file di carri armati e le colossali rastrelliere di fucili, nei capannoni di una Armata Rossa in disuso e in saldo, fanno inalare ampi respiri agli spazi di definizione scenica della storia. Altre volte le soggettive di un proiettile accompagnato durante tutta la sua breve vita, dalla fabbrica al cranio di un ragazzo africano, sposano con una certa abilità senso del già visto (viene facile pensare a Cast Away) a efficacia emotiva nuda e cruda, quasi pornografica. Insomma, la fibra c’è. Però c’è anche del nuovo: c’è in qualche modo il cutaneo affiorare di una intenzione politica e di una coscienza civile prima celati. E un nuovo contenuto genera una nuova forma, un nuovo messaggio si porta appresso un nuovo medium.

Ad essere messa in scena è l’ascesa perversamente agiografica di questo giovanotto ucraino emigrato con la famiglia a Little Odessa, che un bel giorno assiste ad un tentato regolamento di conti della mala locale e casualmente ha il suo primo incontro con il bossolo di un fucile automatico. È amore a prima vista. “Da quel momento - dice l’onnisonante voce narrante - capii cosa avrei voluto fare nella vita”. Per Yuri Orlov vendere armi non è un mestiere, ma una missione, se non altro nella misura in cui ciò significa corrispondere al dovere intimo e vitale di seguire la propria natura. Curiosa definizione, quella di un personaggio che non sembra amare il denaro o il potere in sé, ma specificamente il commercio delle armi da fuoco, tanto da non provare interesse per alcun altro tipo di commercio illegale, quand’anche gli capiti l’occasione. Ama le armi con il distacco etico che noi tutti ci aspetteremmo di percepire nelle parole di chi chiama l’AK-47 un’arma di distruzione di massa e contestualmente lo mette in mano ad un bambino. Non siamo delusi: Orlov sciorina con disinvoltura – bisogna dargliene atto - il classico discorsetto tipico del guerrafondaio per convincere se stesso e gli altri che quello che fa, se non altro è inevitabile, che se non sarà lui a vendere lanciarazzi e granate al dittatore africano di turno, lo farà qualcun altro. Un bel personaggio a tutto tondo, le cui penombre e sfumature, quando compaiono ad approfondirne la psicologia, vengono in ultima battuta ricalibrate a sottendere perfettamente, senza appelli, la sua natura monocorde, assoluta, di “dio” (non più o non solo “signore”) della guerra.
Cage vende bene il prodotto che Niccol gli affida, rispettando i dettami trasmessigli dal cineasta circa l’assoluta predominanza del protagonista sul resto dell’universo narrativo. Infatti se Orlov è il “dio”, per gli altri tipi del film non resta se non lo spazio per funzionare da architettura e da liturgia. La moglie, che si gode la vita da nababbi senza chiedergli la benché minima spiegazione per poi inorridire quando qualcuno gli suggerisce l’ovvia verità. Il poliziotto dell’Interpol che non fa altro che tampinarlo per tutta la storia, sempre con un palmo di naso come premio per una performance da dignitoso sfigato (ma è Ethan Hawke, e in molti giurerebbero che Niccol gli era artisticamente affezionato…). Il concorrente, l’altro veterano mercante di morte, sempre al secondo posto nella corsa all’affare del momento, sempre a mordere la polvere del nostro eroe, con in bocca poche, stantie battute e sul viso un costante disappunto (altro sfigato?). Però si dà il caso che sia il viso di Ian Holm, e francamente sembra difficile riuscire a perdonare al regista uno spreco del genere. C’è spazio solo per la parabola di Cage, con il suo finale effettivamente sorprendente, che ridà un senso originale alle precedenti menate del protagonista sull’opportunità di aver scelto un mestiere del genere.

È nel finale che Niccol si gioca la sua carta migliore: in un dialogo troviamo una denuncia di portata planetaria, una frase, riportata in didascalia al termine del racconto, che ripropone un nuovo contesto morale in cui riconfigurare tutto quello che avevamo appena visto sullo schermo.
Lord of War schiva a conti fatti il rischio di essere un film banale, se non altro perché utilizza un linguaggio filmico e narrativo assolutamente convenzionale, quasi da film d’azione, per arrivare a dire una cosa che di convenzionale non ha poi molto. Il trucco del ribaltamento di prospettiva (etica, non narrativa) funziona a dovere, ed è per questo motivo che bisogna aspettare fino alla fine, in alcuni punti pazientando, per ritrovare il senso complessivo del progetto.
Ma lo scotto da pagare è stato l’abbandono in buona parte dello specifico del cinema niccoliano fino ad ora visto. Il cuore e il significato di questa storia non sono più le raffinate composizioni di spazi fotografici e situazionali che alcuni avevano apprezzato in precedenza, pieni di rimandi rielaborati dall’arte della pittura surrealista (non c’era forse un milligrammo di Magritte nelle piatte profondità di The Truman Show e un sentore di De Chirico e Dalì nelle architetture post umaniste di Gattaca?). E’ tutto racchiuso in uno scambio di battute, è qualcosa che viene detto dai personaggi, con le parole. Ciò che anima l’azione di Orlov è quanto viene detto, uno statement forte come un j’accuse politico, per sua natura perfettamente estrinsecabile in un cartello posto prima dei titoli di coda, e dunque in qualche misura pleonastico. Le immagini, pur belle, si derubricano a viatici funzionali del messaggio; gli attori, pur bravi, da questo vengono agiti, e così il pamphlet, pur mordace, prende il posto del quadro.