Little miss sunshine

La riscossa dei perdenti
di Piero D'Ascanio

 
  Id., Usa, 2006
di Jonathan Dayton, Valerie Faris, con Abigail Breslin, Greg Kinnear, Toni Collette, Steve Carell, Alan Arkin


Nel mare di prevedibilità d’inizio stagione - successi annunciati, fiaschi inesorabili, pallide eccezioni “d’autore”- ecco invece il film che non t’aspetti, ma che in cuor proprio si spera sempre di vedere. “E’ sempre il momento per una commedia”, dichiarava Moretti a Jasmine Trinca in una divertente scena de il Caimano: ecco, usciti dalla visione di Little Miss Sunshine, viene davvero voglia di stamparselo su una t-shirt. L’opera prima dei due non più giovani “videoclippari” Dayton e Faris è una sorprendente e scatenata commedia “on the road”, animata da uno stuolo di personaggi nati con la faccia degli attori che li interpretano e impreziosita da una materia narrativa tutt’altro che facile e scontata. La formula può ricordare il cinema di Wes Anderson; ma qui si ride anche come in un film dei fratelli Marx, ed è una virtù che bilancia abbondantemente una possibile disomogeneità nel controllo formale, fiore all’occhiello, invece, dell’opera del giovane autore texano.
Little Miss Sunshine ci racconta il travolgente week-end della stramba famiglia Hoover, lanciata verso la West Coast a bordo di un pullmino Volkswagen giallo uscito direttamente dagli anni Settanta; il folle sestetto corre alla volta di Redondo Beach, dove si terrà la finale del concorso che dà il titolo al film (“Piccola Miss California”, nel doppiaggio italiano), al quale la piccola Olive, fortuita vincitrice delle selezioni regionali, è chiamata a partecipare.
A contatto con un opera del genere, qualunque tipo di annotazione viene dopo una doverosa disamina della sgangherata compagine che anima il racconto. Come ci capitò con le gesta de i Tenenbaum, allo stesso modo, alle prese con l’epica “anabasi” degli Hoover, non faremmo altro che parlare dei caratteri usciti dall’ispirata penna dell’esordiente Michael Arndt. Il capofamiglia è un ritrovato Greg Kinnear, il cui ultimo film degno di memoria era il bel Betty Love di Neil LaBute; qui, l’attore si carica sulle spalle il personaggio cui tocca in sorte la maggiore evoluzione psicologica, teorico dei “nove passi” per essere un vincente quando è lui stesso, in realtà, un riuscitissimo “loser” . Interpreta sua moglie Toni Collette, attrice duttile come poche, e per giunta dotata di un’efficacissima carica ironica: il suo personaggio, tirate le somme, sembra essere il più “equilibrato” del gruppo. I due caratteri più “connotati” risultano invece essere quello del fratello di lei - un grande e stralunatissimo Steve Carell - esimio studioso di Proust, reduce da tentato suicidio per amore di un suo studente; e l’immancabile nonnetto arzillo, qui anche erotomane ed eroinomane, che uno come Alan Arkin si deve esser divertito un mondo a interpretare. Chiudono il variegato campione umano, ovviamente, i due fratelli Hoover, Dwayne e Olive: lui un quindicenne misantropo che coltiva studi nietzschiani; lei, tout court, la forza propulsiva della storia, ciò che le dà l’abbrivo e l’energia, e soprattutto la conduce, con la scatenata performance finale, a giusta e memorabile conclusione. Già, perché se il travagliatissimo viaggio del sestetto riserva più di un momento esilarante e la sceneggiatura reitera giustamente almeno la gag della partenza a spinta del furgoncino – meritevole di manifesto del film - negli ultimi venti minuti il ritmo comico raggiunge livelli davvero epici, e ci si alza dalla poltrona ancora storditi dal segmento narrativo più travolgente degli ultimi tempi.
A conti fatti, Little Miss Sunshine si attesta sulla scia della commedia americana più indipendente e corrosiva, quella portata a forma perfetta proprio dal succitato Anderson; e se per questo stesso fatto, quindi, sfonda delle porte già aperte – dal “vecchio” Rushmore (1998) al recentissimo e bizzarro Napoleon Dynamite, non si tratta certo della prima “epopea dei perdenti”- di suo il film di Dayton e Faris ci aggiunge una dose cospicua di divertimento puro, innestato sulla struttura sempre affascinante del “road movie”. Correte a vederlo.