Lettere da Iwo Jima

Le bandiere e le lettere
di Emanuele Boccianti

 
  Letters from Iwo Jima, Usa, 2007
di Clint Eastwood, con Ken Watanabe, Kazunari Ninomiya, Tsuyoshi Ihara


Sotterraneo, dolente e microscopico, il secondo capitolo del progetto di Eastwood su Iwo Jima si differenzia in maniera sostanziale dal precedente Flags of our fathers, con il quale gioca a creare una specie di tensione asimmetrica riuscita e interessante. Per una sorta di calcolato ribaltamento tematico, tutto ciò che nel primo film poteva sembrare eccessivo e rumoroso, in Letters diventa soffuso, composto, intenso e quasi rituale. Là era in scena l’anima dell’America alle prese con la guerra, e l’ottica utilizzata era quella di un macchinismo socio-cultural-industriale straniante e fagocitante, che costruisce a tavolino le icone della vittoria, del coraggio e dell’onore e ne fa strumento di propaganda pubblicitaria su scala macroscopica, al fine di convincere chi era rimasto a casa e in guerra non c’era andato, a continuare a dare il proprio appoggio alla causa bellica, dicendo grazie agli eroi e mettendo mano - ancora e ancora - al portafogli. Qui invece ad essere drammatizzato è il rapporto intimo e più tipicamente esistenziale del guerriero giapponese con la morte in battaglia; e - si badi bene - non con la guerra semplicemente, chè la battaglia di Iwo Jima negli annali della storia bellica ci entra di diritto per il suo carattere assolutamente e premeditatamente sacrificale, dal punto di vista nipponico: entrambe le parti in conflitto sapevano che l’isola avrebbe cessato di essere suolo giapponese. Per le truppe alleate l’unica incognita era il quando, quando sarebbe caduta. Per i giapponesi, piuttosto, il dubbio era se davvero sarebbero riusciti ad uccidere dieci nemici almeno, prima di restituire l’anima ai loro antenati. Le due facce della propaganda di guerra, si potrebbe dire: e qui il buon vecchio Clint mostra di aver maturato una prospettiva assolutamente adulta e disincantata sull’argomento, complici anche chissà, le sue militanze al comando di Sergio e Don: perché uno dei lati più critici di tutta la questione è che la gente in guerra bisogna convincerla ad andarci, e a crederci; a credere all’oscena bugia che, come diceva tempo fa uno scrittore italiano “controcorrente”, la guerra è una cosa bella, santa e necessaria. Ecco, infine, il senso ultimo di un progetto bifronte come quello di Iwo Jima. E sul lungo termine, funziona: così come funzionano i suoi eccessi, che si compensano a vicenda, quasi che si tratti di uno stesso narrare, da sentire, più che vedere. Alternato, più che in sequenza.
Il teatrino di Letters è composto tutto da figure solenni e al contempo leggermente patetiche, ancorchè - o forse proprio per questo - umanissime. A partire dal protagonista, il fornaio un po’ marmittone e dissidente nell’animo, che contravviene sin dal principio al postulato sacro del soldato e promette alla figlia ancora nel grembo della moglie che tornerà dal fronte, mentre gli alti ufficiali diffidano le truppe dallo sperare nella sopravvivenza. E infatti nella prima scena del film lo vediamo chino sotto le nerbate di un caporale per aver detto frasi antipatriottiche. Ma patetico è anche l’ufficiale cavallerizzo, svezzato alla cultura americana e idolo olimpionico, che sembra un po’ un playboy e che non vuole separarsi dal suo destriero campione neppure sul luogo di battaglia, salvo poi piangerlo (sic) una volta che lo vede dilaniato dalle bombe dei caccia statunitensi. E lo stesso Kuribayashi, interpretato dal bravo e imponente Ken Watanabe, il comandante assegnato alle forze dell’isola con l’immane compito di resistere il più a lungo possibile, è un personaggio sfumato e liminare, stretto tra l’appartenenza al credo imperiale e il dogma della morte onorevole da una parte, e una cultura di più ampio respiro dall’altra, una educazione ed una storia personale che lo hanno portato non solo a conoscere l’America ma anche a sentirla come paese amico, e a dolersi di questa lacerazione. Un dolersi che, unitamente alle sue tattiche rivoluzionarie e quindi fondamentalmente incomprensibili al resto dei suoi ufficiali, più tradizionalisti, gli valgono persino il sospetto di filoamericanismo.
In una costruzione scenica composta da spazi chiusi e opprimenti - quelle gallerie che Kuribayashi fa costruire attirandosi il dissenso dei suoi sottoposti - Letters funziona ancora e soprattutto da contraltare alle pregevoli panoramiche di Flags, proponendosi come una complessa, tutt’altro che serena preparazione alla morte: quella imposta dal rigido patriottismo del kamikaze, e quella vera, scabra e trucida della sconfitta individuale, avvertita infine come estremo gesto di non-senso malgrado l’impostazione rituale, quasi liturgica, che si compie gridando banzai e abbracciando una bomba a mano. Eastwood si dimostra ancora una volta, col suo stile personale, un autore con una spiccata sensibilità ad illustrare il concetto di preparazione alla morte, ed ha buon gioco in questo caso nel controllare perfettamente i due parametri antitetici della costruzione del senso e dell’insensatezza di questa esperienza, così come li fornisce nello specifico la filosofia giapponese del guerriero, per cui il cadere in battaglia (a differenza del militare americano) è l’essenza stessa del fare la guerra. Se dunque il precedente Flags si poneva come disumanizzante (anti)estetica della sopravvivenza, la cui pertinenza risiedeva nella capacità di significare per un paese il credere ancora nella naturale prosecuzione della politica con altri mezzi, con Letters il regista cristallizza il momento finale attraverso l’espediente dei ricordi e delle lettere, dipingendo un’etica del trapasso commovente e amarissima perché focalizzata sull’individuo, la sua solitudine, e sulle contraddizioni tra dover morire e voler sopravvivere suo malgrado. Nessuna delle due, sembra suggerire l’autore, funziona in fin dei conti: nè la retorica patriottica su scala macroscopica né l’etica antiumanistica del guerriero solo con la sua katana. Per quanto opposti e reciprocamente incomprensibili, nessuno dei due tentativi di trovare un senso all’insensato ha il pregio di offrire conforto morale o supporto teorico al contesto bellico. Ma, se non altro, in Letters compare la poesia (da notare, a nostro avviso, come la scelta dei due titoli rimandi a due figure dense di opposti rimandi emotivi: le bandiere e le lettere), quando i rumori di fondo si affievoliscono e resta solo l’uomo con la sua follia e il suo desiderio di affetti. Il fornaio marmittone è l’unico a vincere la sua guerra, nell’epopea di Eastwood, perché è l’unico ad avere il coraggio di disconoscerla e rinnegarla. E perché il suo scopo, nonostante tutto e tutti, è la conservazione della sua identità affettiva. Non male, per un autore considerato in genere “a destra”.