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the Kingdom
id., USA, 2007
di Peter Berg, con Jamie Foxx, Chris Cooper, Jason Bateman, Jennifer Garner

Narrazione metatestuale in tempo di guerra
recensione di Alessandro Gambino



Riyadh, Arabia Saudita, 1996. Il compound di Gulf Oasis, in cui alloggiano gli impiegati di una società petrolifera americana con i loro familiari, subisce un terribile attacco terroristico che provoca la morte di oltre cento persone, tra le quali resta vittima un agente federale statunitense.
Mentre i burocrati sono impegnati in questioni di territorialità, l’agente speciale FBI Ronald Fleury e la sua squadra di prim’ordine creano una task-force e organizzano un viaggio segreto di cinque giorni nel regno saudita per localizzare l’uomo che ha ordito l’attentato. Nel momento in cui mettono piede nel territorio arabo, però, Fleury e il suo equipaggio si rendono conto che le autorità locali sono sospettose nei loro confronti. Vincolati da un rigido protocollo e angosciati dai limiti di tempo stabiliti dal governo del luogo, gli agenti scoprono che tutta la loro abilità ed esperienza non hanno alcun valore se non possono avvalersi della collaborazione delle controparti saudite che, dal canto loro, intendono localizzare i terroristi con i loro metodi. Fleury scopre delle affinità con il colonnello saudita Al Ghazi che ha il compito di proteggere gli ospiti americani. Mentre Al Ghazi aiuta Fleury a comprendere la politica locale e a carpire i segreti della scena del crimine, i due scoprono le attività di una feroce cellula terroristica. I due uomini, pur provenendo da mondi profondamente diversi, trovano la stima reciproca e si uniscono in un grande obiettivo comune.
In un presente segnato da una conflittualità perenne, fortemente voluta e stimolata da quella grande narrazione messa in piedi dalla destra radicale statunitense (prima e) dopo l’11 settembre, una parte importante del cinema americano mainstream diventa un grande metatesto che travalica opere e generi e che prescinde dalle autorialità coinvolte nei singoli progetti, per diventare a sua volta rappresentazione estetica globale, veicolatrice della nuova visione del mondo imposta dai teocons. A differenza della Hollywood radical che fin dall’inizio si è schierata contro la politica estera del presidente Bush e che ha reagito attraverso singoli autori che con le loro opere hanno gridato il loro atto d’accusa e la loro contrarietà alla guerra. In molti film che appartengono a questo grande metatesto si può individuare addirittura un comune stile di regia, un modo di inquadrare e di girare, un modo di raccontare il mondo con un’estetica precisa, a prescindere da chi siano gli autori, probabilmente perché negli studios i veri autori sono, spesso e da sempre, i produttori esecutivi e non i registi. The Kingdom, rientra in pieno in questa categoria e avendo come executive Michael Mann, si capisce subito quale sia lo stile di cui si sta parlando. Thriller dal ritmo tiratissimo, con particolare attenzione alle psicologie dei personaggi, grana grossa dell’immagine digitale, uso frenetico dello zoom in cui la funzione diegetica coincide perfettamente con la funzione linguistica (si afferma sempre di più uno sguardo a distanza, lo sguardo dello spionaggio satellitare, lo sguardo esclusivo delle strategie militari nei conflitti postmoderni), fotografia dominata dai colori gialli del deserto mediorientale, in una sorta di iperrealismo che a volte ha il gusto della fascinazione esotica, a volte quello dei war games di propaganda delle consolle di ultima generazione.
Attraverso questo linguaggio, questo stile che ha informato di sé gran parte della migliore produzione hollywoodiana degli ultimi anni, in questa estetica collaterale (illuminanti le inquadrature dall’alto, in notturna, sui suv neri dei servizi sauditi in corsa per le strade costeggiate dalle grandi palme e dalle luci sfarzose dei palazzi regali, quasi uno slittamento di Los Angeles nella penisola arabica), The Kingdom racconta il fuori campo della strategia militare del governo americano dopo l’11 settembre, uno degli eventi precedenti e preparatori delle guerre in atto. E lo fa attraverso il western, modello esplicito di riferimento nel film di Berg: il pericoloso quartiere di Riyadh, agglomerato di covi terroristici, sembra un vero e proprio villaggio western di frontiera, uno spazio costruito come insieme di muri che proteggono dal fischiare delle pallottole e dai quali angoli spuntano all’improvviso buoni e cattivi per spararsi addosso. Ma che, al tempo stesso, mantiene il carattere di riserva indiana, luogo di confino del religioso proletariato arabo che combatte la corrotta monarchia wahabita. Non è, ovviamente, soltanto questione estetica: del western classico The Kingdom mantiene soprattutto la retorica manichea per cui i democratici allora al governo sono rappresentati come burocrati che con la loro cauta politica fondata sulla diplomazia rimangono di fatto immobili e incapaci di reagire, la monarchia saudita (preziosissimo partner della compagine politico-economica dei teocons) come un governo non ambiguo ma chiuso e fondamentalmente onesto nella sua war on terrorism, la task force formata dell’FBI come manipolo di valorosi soldati, espressione diretta del pragmatismo interventista del governo americano. Dall’altro lato, i terroristi, il male assoluto. Nessuna sfumatura, nessuna ambiguità, nessuna ambivalenza. In un mondo dominato dalla complessità, l’estrema semplificazione attuata dall’opera di Berg (in questo senso il film sembra pochissimo opera di Mann, regista che, come Soderbergh, lavora molto di più sulle stratificazioni, sulle derive di senso, sulle ambiguità del racconto e dei personaggi) rispecchia fedelmente la favola della lotta del Bene contro il Male che da anni George W. Bush si impegna a raccontare. Esemplare l’incipit del film: ottanta anni di storia e geopolitica della regione mediorientale ridotti a una serie di passaggi causali, ferramente concatenati fra loro dal punto di vista logico, che non può avere altro sbocco possibile se non la tragedia attuale della guerra.
Chissà quanti altri prodotti ben confezionati come questo arricchiranno la grande narrazione metatestuale in attesa dell’Iran…