Io, robot
L’indesiderato ritorno del Golem
di Emanuele Boccianti

 
  I, robot, Usa, 2004
di Alex Proyas, con Will Smith, Bridget Moyanhan, Bruce Greenwood


Ammettiamolo: tirare fuori un film intelligente e di forte presa sul pubblico da un lavoro di Isaac Asimov non è cosa facile, e chi conosce questo autore, tra i massimi padri della fantascienza scritta, lo sa bene. Asimov non si è mai fatto conquistare da un approccio “visivo” alla letteratura, prediligendo sempre l’invenzione intellettuale, la speculazione, l’intreccio dalle profonde radici scientifiche. Nei suoi libri l’azione è sempre distillata con enorme parsimonia, fino a renderla un puro contrappunto allo snodo vorticoso delle sue trame, una maniera per dare risalto alla tensione di certi momenti nella narrazione.
"Io, Robot", la sua più bella ed affascinante serie di racconti, ne è forse la massima espressione. Le tre leggi della robotica nella loro apparente semplicità hanno il pregio e l’onere di chiudere un’era ed aprirne un’altra nel panorama sterminato della narrativa sugli automi, ed infatti si può parlare di fantascienza “shelleyana” o “frankensteiniana” da un lato, e di fantascienza “asimoviana” dall’altro. Assoggettando la macchina alle tre leggi, e quindi vincolando la stessa al rispetto assoluto della vita umana, anche a scapito della propria conservazione, finisce il paradigma del golem, del mostro che si ribella al proprio creatore e assurge a nemesi della di lui hybris. In Asimov il problema del rapporto con i replicanti si rinnova e si raffina: ciò che dobbiamo temere, d’ora in poi, è la loro obbedienza. Questo significa spostare il focus dell’interesse narrativo e speculativo su un piano più distante, meno immediato del puro confronto materiale per la supremazia o la sopraffazione. E dunque centrare il problema della dialettica uomo-macchina: la macchina è costruita secondo un codice ed un modello della realtà che si chiama logica. La logica è un modo di pensare inventato dall’uomo. Ma è davvero uno strumento valido, sicuro, per agire sul mondo e crearne nuovi pezzi? La risposta positivista, o neopositivista, è sì. La logica, rappresentando l’affilata punta di diamante del pensiero razionale occidentale, è stata vista da sempre come un potente e affidabile strumento di interpretazione della realtà. Ora, nei racconti di Asimov un robot non può recar danno ad un essere umano né per sua inazione, eccetera eccetera. Eppure ogni volta, regolarmente, è il robot a creare le situazioni in modo tale da causare danno agli esseri umani. E non lo fa aggirando banalmente le leggi che lo vincolano, bensì trovando, in contesti ovviamente fuori dall’immediato ordinario, contraddizioni, punti deboli e lacune insite in partenza nell’impalcatura concettuale alla base delle leggi stesse. Accade quindi che il robot, “che ha come mezzo di interpretazione della realtà unicamente la logica”, diventi una specie di grimaldello attraverso cui la logica scardina se stessa, rivelando la propria fallibilità e incompletezza. Un teorema di Gödel che cammina.
“Io, Robot”, il libro, è un carosello affascinante di enigmi e rompicapi da risolvere sul piano concettuale, e non a caso il taglio che hanno molti racconti è quello della mistery story classica, alla Agatha Christie, con tanto di protagonisti ricorrenti modellati sui personaggi di Sherlock Holmes e del Dottor Watson. Entrambi gli autori infatti, Christie e Conan Doyle, hanno deciso di dotare i loro eroi di un’arma quanto mai singolare: l’intelligenza speculativa e deduttiva.
Fare un film – un bel film - su un soggetto di paternità asimoviana significa dover tenere conto anche di queste considerazioni. E comporta essere un regista che si muove a proprio agio sui viottoli scivolosi della speculazione e dell’invenzione intellettuale.
Non sembra che Proyas avesse, dopotutto, i numeri per un’impresa del genere. Non che fosse scontato, però, visto che dopo Il Corvo, trionfo di un tipo di cinema che si plasma totalmente intorno all’invenzione visiva, atmosferica e scenografica, aveva azzeccato un film assolutamente meritevole come Dark City, in cui la sua cifra stilistica, ravvisabile in un certo genere di impatto provocato dall’uso di atmosfere cupe, dark, appunto, era affiancata da una certa dose di inventiva sul piano strettamente concettuale. Poteva anche darsi che ci fossero delle potenzialità in tal senso, poteva essere che Proyas ci regalasse un dark sci-fi movie animato da una sottile e sofisticata sceneggiatura, in omaggio al padre della robotica letteraria contemporanea.
Niente da fare, invece. Con ogni probabilità il tentato guado tra il fanta-horror d’appartenenza e la cosiddetta hard science fiction (dosi massicce di grounding scientifico, che spazia dall’informatica alla sociologia, predilezione per le trame sofisticate e speculative) ha significato per Proyas la necessità (o la volontà) di abbandonare i consueti chiaroscuri, cupi ed inquietanti, per un cromatismo decisamente patinato a livello di fotografia, e tristemente piatto. Molto mestiere, molta accademia, nessun guizzo di originalità, nulla che non fosse già visto decine e decine di volte. Scenografie e design così consegnate all’immediato immaginario collettivo da sconfinare nel modernismo: l’estetica accattivante dell’immaginare il futuro dandogli al contempo una venatura di sapore retrò. Una metropoli modernista era già in scena in Minority Report (altro sci-fi movie per cui non è per niente peregrino fare riferimenti alla mystery story classica), ma in quel caso era all’opera una storia di ben altra fatta, sceneggiata a partire da un racconto di Dick, che di modernista non ha proprio nulla. Nel film di Proyas invece la storia è completamente genuflessa all’approccio visivo, al tour un po’ grossolano che la macchina da presa ci fa fare in mezzo a quelle meraviglie del futuro: le Audi dal design mozzafiato che vengono parcheggiate all’interno di enormi ascensori rotanti sottoterra, o i robot, la cui presenza e quantità nel film è quasi superliminale (c’è addirittura una statua alta dieci piani in un grattacielo probabilmente più alto dell’Empire, una specie di totem colossale, omaggio al nuovo dio/servo che l’umanità si è costruita).
Sicuramente la scelta di dare a Will Smith la parte del protagonista non è casuale: rispecchia una precisa volontà estetica, si potrebbe dire. Un attore che, tranne importanti ma rare eccezioni, si è fatto sempre alfiere di un tipo di cinema pesantemente impostato su un action ironica e spumeggiante, magari un po’ tagliata con l’accetta, e di facile presa sul pubblico del sabato sera. Spolverino di pelle, muscoli in bella mostra e atteggiamento super cool sembrano fatti apposta per lui. C’è da chiedersi, però, se si attaglino davvero per il tipo dell’investigatore asimoviano, abituato più a confrontarsi con dilemmi di logica ed enigmi scientifici che non con manubri da ginnastica e scarpe da basket trendy.
E i robot? Che ne è nel film di questa icona, già nel titolo esplicitamente resa un vero e proprio alter ego della sua controparte umana? La sceneggiatura ce li mostra in tre differenti formati: servizievoli e idioti, mansueti come manzi in attesa di servire o di venire disassemblati; riflessivi e dotati di nuove, eretiche capacità di provare sentimenti di affezione nei confronti di se stessi e di complicità con gli umani (con tanto di occhiolino che fa Sonny al detective Spooner), e da ultimo spietati e nazisti nel loro intento di proteggere gli uomini da se stessi, dalla loro stessa tendenza all’autodistruzione. Un po’ sbrigativa come trovata, dal momento che uno degli effetti modernisti dell’impianto narrativo è proprio quello di dipingere una civiltà supertecnologica in cui gli unici motivi di ostilità sembrano riservati alle macchine stesse: nessuna tensione, nessuna inquietudine sociale viene mostrata. I robot dichiarano di voler sottomettere gli umani per preservarli dalla loro innata indole guerrafondaia, ma il punto è che il mondo che il film ci descrive non presenta traccia alcuna di queste guerre in corso, sembra piuttosto una società accovacciata e anestetizzata dall’ipertecnologia, smaltata in ogni suo punto, lontana anni luce dalla corrosività inquietante che poteva avere, ad esempio, la Los Angeles di Strange Days. Ecco perché il coup d’etat dei replicanti ha alla fine il sapore di un deus ex machina un po’ appiccicato alla bell’e meglio, escamotage per sopperire alla necessità di fare dei robot dei cattivi all’improvviso e confezionare un conflitto in maniera decisamente artificiale. La facilità di questo conflitto, escogitato con la grossolana trovata di costruire una nuova generazione di macchine affrancate, semplicemente, dalle tre leggi, sembra in buona sostanza tradire lo spirito precipuo dei lavori di Asimov, il quale, come detto in precedenza, si era adoperato con somma finezza inventiva per rendere minacciosi i servi meccanici semplicemente facendo collidere tra loro le pur apparentemente perfette leggi impiantate nei loro cervelli positronici. Il principio asimoviano del non-frankensteinismo viene in qualche modo abbandonato, dunque, e si ritorna tristemente al concetto di macchina ribelle, appena meno ottusa di tante altre volte precedenti.
Così tra muscolarità ammiccanti, duelli in motocicletta alla John Woo con tanto di ralenti e assalti frontali di legioni di droidi sciamanti per la città si consuma la deriva ipercinetica di questa pellicola decisamente ibrida, incastrata nel compromesso tra il rispetto della paternità del soggetto e l’assoggettamento ai dettami dell’industria del botteghino. Con buona pace di papà Isaac, sembra che non ci siamo ancora liberati dalla paura atavica del Golem. Purtroppo.