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Io non sono qui
I’m not there, Usa, 2007
di Todd Haynes, con Cate Blanchett, Richard gere, Christian Bale, Heath Ledger, Charlotte Gainsbourg

For fan(atic)s only
recensione di Fiorella Pierini



Per la maggior parte del tempo non so chi sono
Il mito di Bob Dylan è ingombrante e non certo facile da affrontare. Non è semplice farlo rientrare in forme istituzionali, costringerlo nel documentario o nel biopic (anche quando a manipolare tale materia si cimenta un mostro sacro come Scorsese nel 2005 in No Direction Home).
Il merito, dunque, del film di Todd Haynes sta proprio nell’approccio “sentimentale” alla figura di Dylan, nel rifiuto di farsi gabbia e struttura, nella capacità di interpretare liberamente più che spiegare. Il film rinuncia immediatamente, a ragione, ad una ricostruzione cronologica, univoca e lineare, della vita del p(r)o(f)eta e si divide in frammenti e in facce; i tasselli di un’opera immensa, difficilmente sintetizzabile, eppure egregiamente rappresentata proprio nei suoi elementi costitutivi: ricchezza/contraddittorietà/eternità.

Io non sono qui
Dylan sembra dichiararci che il “non esserci” è la condizione necessaria per farsi descrivere e lo fa dando assenso all’opera di Haynes (per la prima volta nella storia dei numerosi tentativi di trarre opere ispirate alla sua vita). Così, il regista si lascia andare alla deriva, guidando lo spettatore attraverso una non-storia dalla partitura musicale piuttosto che cronologica.
Il film è infatti il compimento di un atto appassionato, in contraddizione con le critiche che vogliono Haynes l’abile creatore di immagini formalmente perfette ma vuote di pathos. Qui sono lontane sia l’autoreferenzialità indulgente di Velvet Goldmine (precedente opera a tema musicale), che la cura a volte fine a se stessa di Lontano dal Paradiso.
In Io non sono qui la visione del regista è invece coinvolta e coinvolgente, in tutto simile a quella di un fan il quale, partendo dall’accettazione dell’assenza fisica dell’idolo, non rinuncia a destinarvi un tributo, un atto aperto di “amore”.
Senz’altro il risultato finale è destinato soprattutto ad essere gustato da altri estimatori; gli unici a poter cogliere in effetti tutte le sfumature tra pura invenzione e fatti di cronaca, gli unici a saper riconoscere, dietro le sei maschere principali, i diversi volti reali, assunti da Robert Allen Zimmermann nel corso dei propri anni.
Infatti, riprendendo alcuni degli attributi fondamentali ascritti a Dylan dalla storia e dalla critica (musicale e non), il suo ritratto viene disegnato seguendo sei principali traiettorie, e la sua vita scomposta in altrettante parti. Sono le sei anime fondamentali dell’artista, contestualizzate in tempi e luoghi vari, a volte indefiniti e sovrapposti. Nel film troviamo l’anima del Dylan poeta, quella del profeta, del bandito/assassino, del folksinger, del fuggiasco e quella dell’attore.
Svanisce la connessione temporale tra un evento e l’altro (e tra le azioni di una figura e quelle di un’altra). La linearità della narrazione viene dissolta nel meraviglioso uso dell’immagine (sempre diversa a seconda dei contesti), e poi rimanipolata attraverso la tensione drammatica che scaturisce dalle sorprendenti interpretazioni degli attori.
Su tutti merita una prima menzione particolare Cate Blanchett, vincitrice della Coppa Volpi alla 64° Mostra del Cinema di Venezia. Meravigliosamente androgina, duttile e multiforme, è abilissima nel restituire il lato più tormentato del menestrello/profeta, Bob/Jude, ed il suo rapporto conflittuale con l’impegno politico, col pubblico e con la stampa, negli anni che traslavano il mondo dall’epoca della rivoluzione a quella della rassegnazione. Notevole è anche Christian Bale che presta il volto a Bob/Jack, negli anni degli esordi in cui l’allora enfant prodige Dylan era destinato a dare un nuovo corso ed un significato nuovo alla tradizionale folk music. Intensissima e quasi crepuscolare l’interpretazione, affidata a Richard Gere, dell’assassino Bob/Billy (the Kid), rifugiato (e imprigionato) in un mondo onirico e visionario di sapore circense nel quale un insieme di personaggi ai margini della società (soggetti ricorrenti nei testi di Dylan) prendono parte a rituali surreali, scanditi dall’incipit strumentale dell’oscura “Man in a Long Black Coat”.

Uno strano giovanotto chiamato Dylan, con la voce di sabbia e colla
La musica di Bob Dylan e le sue parole sono, com’era ipotizzabile, l’unica vera struttura sottesa al racconto filmico. Haynes affronta la vastissima produzione del cantautore (cinquanta tra album veri e propri e raccolte!) senza perdersi e senza lasciarsi annegare.
La bella selezione che viene a costituire la colonna (narrativo-)sonora di Io non sono qui è, già da sola, un’ottima prova di sensibilità artistica. Naturalmente, presupposto il teorema dell’assenza su cui è stato costruito questo film tributo, l’autore-protagonista doveva essere, ove possibile, reinterpretato. Ma la personalità inconfondibile dell’opera di Dylan è un elemento che non è possibile ignorare, e la sua “voce di sabbia e colla” impossibile da replicare.
Quando ci si muove su un terreno tanto insidioso ogni scelta coraggiosa è encomiabile, ma lo diviene ancor più se succede, come in questo caso, che l’esito di tali scelte sia del tutto positivo.
La colonna sonora, dunque, è costellata di interpretazioni di numerosi brani affidate ad artisti diversi. Il regista in questo caso si serve della cooperazione di alcune tra le più interessanti voci del panorama musicale internazionale, tra gli altri; Mark Lanegan, Sufjan Stevens, Antony & The Johnsons, gli Yo la Tengo, i Calexico, Steven Malkmus, Eddie Vedder e due componenti dei Sonic Youth. L’approccio di questi artisti a Dylan è (semplicemente) umile, e lontano da ogni tentazione mimetica; i loro interventi si integrano perfettamente con il materiale originale pur rimanendo cosa a sé, conservando una natura duplice sia di accento puntuale che di elemento armonico.
La presenza di alcune delle più significative canzoni, in versione originale (“I want you”) o in preziosi outtakes (“Idiot wind”), è poi doverosa e mai scontata. A partire già dalla title track di questo film-compilation ci si trova, infatti, di fronte ad un tesoro riportato alla luce. “I’m not there”, realizzata nel 1956, era fruibile, prima d’ora, solo nel secondo volume delle Genuine Basement Tapes, sommersa da un oceano di altre parole ed altri suoni concorrenti.
Probabilmente la giusta calibratura tra cura formale e deriva emotiva sono gli elementi che rendono davvero suggestivo il risultato finale di queste scelte musicali ed estetiche, un risultato in grado di soddisfare (o almeno incuriosire) anche il fan più intransigente.

Così facile da guardare così difficile da definire
Il mito di Bob Dylan eccede la sua singola persona.
In questo caso, al cinema, sono oggetto di una celebrazione corale, lirica e caotica, solo alcune delle sue vite. Questo film commemorativo sull’attività di un vivo, è dunque, per nascita e per definizione, un’opera aperta soggetta ad un’infinita, intima, ridiscussione.