Indagini sporche - dark blue
Un film già visto, ma americano
di Luca Perotti

 
  Dark blue, USA 2002
di Ron Shelton, con Kurt Russell, Brendan Gleeson, Ving Rhames

Anche il peggiore degli inferni possiede cunicoli nascosti, dentro i quali il clima può diventare ancora più rovente, la violenza ancora più sfrenata. Los Angeles è l’inferno. E sulla soglia di uno dei varchi che conduce al punto di non ritorno si agitano, in fremente attesa, reietti e tutori dell’ordine, poliziotti vigliacchi e delinquenti senza scrupoli. Aspettano il verdetto: condanna o assoluzione per gli agenti che hanno malmenato Rodney King? Radio, televisione e giornali si concentrano sul fatto di cronaca realmente accaduto nel marzo del 1991, ma nel frattempo la giungla urbana continua a palpitare di regole infrante, di omicidi e loschi trucchi. I poliziotti maramaldi e le bande losangeline hanno a che fare con una realtà che non ha gli stessi tempi dei mass media, ma continua a produrre dolore e corruzione come una catena di montaggio. Eldon Perry (Kurt Russell) è uno sbirro razzista che setaccia le strade in cerca di criminali, manovrato da un capo con le mani nella melma e accompagnato da un collega più giovane e immacolato ma già corteggiato dalle sirene del gioco sporco. Il caso Rodney King è solamente una coincidenza. Le prepotenze della polizia sono all’ordine del giorno. Le autorità sono immerse in un contesto regolato dalla violenza in cui solamente distintivi e divise blu distinguono i cattivi dai secondini. Ma nemmeno questa è una regola. Come in un incubo Dickiano, anche Perry e colleghi attuano una sorta di strategia “pre-crime”, ma decisamente meno raffinata. Quando è necessario trovare un colpevole, spulciano tra gli archivi, individuano il soggetto ideale e lo puniscono. Non ha commesso il fatto, ma prima o poi si renderà colpevole di un reato. Los Angeles è un carcere a cielo aperto in cui vige un regolamento invisibile che accomuna delinquenti e poliziotti; una promiscua rete di accordi sotterranei attuati nel nome di uno squallido cameratismo mantiene in equilibrio fittizio un disordine che risulta visibile all’esterno solamente nella generalizzata definizione di criminalità. Ad accendere la miccia è il passaggio dalla dimensione confidenziale a quella pubblica di un episodio – un pestaggio ai danni di un ricercato - assolutamente abituale nello spietato marasma suddetto.
Quando giunge la notizia dell’assoluzione degli agenti coinvolti, i blocks di L.A. esplodono di rabbia: uomini-bestie si trasformano in zombie che devastano la città e la depredano come sciacalli.. La scorreria automobilistica di Perry, all’inseguimento del prezioso testimone in grado di far saltare in aria il sistema avviene nel bel mezzo di un’insurrezione polverosa che confonde sagome e sangue. È la visita al girone più estremo dell’inferno prima di consegnare tutto e tutti alla giustizia. Il suo tardivo mea culpa arriva dopo un transito nell’oltretomba che rischia di ingoiarlo dopo aver lisciato la morte. La macchina ruggisce in uno scenario spoglio e primordiale in una sequenza emblematica di un film attaccato alle viscere della strada, protagonista indisturbata nella sua doppia accezione, fisica e metaforica.
Forse il merito di Indagini sporche, tratto da un soggetto di Ellroy e vincitore del “Noir in festival” sta tutto qui: in questa sua energia grezza, convogliata in una denuncia sfrontata e ingenua che sgonfia il cuscinetto che separa il paese reale dal paese ideale, i pestaggi che non si pubblicizzano da quelli stanati da un video amatore che suscitano scalpore in chi ignora il regime di odio su cui è imperniata l’intera comunità. Al quadro di devastazione esteriore fa eco quello interiore dei personaggi incapaci di porre resistenza ad un virus sociale che ha infettato ogni loro organo vitale. La pronunciata rudimentalità dell’impianto narrativo e la predisposizione automatica ad una correttezza politica – nonostante tutto – rendono il film un modello base del genere poliziesco. Un ripasso delle coordinate nevralgiche forse inutile, ma genuino e figlio di un budget ridotto all’osso. Un genere che recupera l’essenzialità di uno schema base e che si avvinghia attorno alla fisicità degli oggetti e dei luoghi spogliati di ogni elaborazione. Così come i personaggi che, disegnati con tratto sicuro e privo di zone d’ombra, acquisiscono la dimensione di funzioni narrative analoghe a quelle di un telefilm. Malgrado una sceneggiatura che stenta a fluire e la sensazione di aver già visto tutto questo almeno un centinaio di volte, non si smette di crederci nemmeno per un istante. Merito della solidità di un cinema mandato a memoria, merito di attori fenomenali ( Kurt Russell e Brendan Gleeson soprattutto). Merito, insomma, del cinema americano.