Hostage

Die Hard con alieni
di Emanuele Boccianti

 
  id., USA, 2004
di Florent Emilio Siri, con Bruce Willis, Kevin Pollack, Jonathan Tucker


L’inizio è da copione: più o meno quello che ci si aspetterebbe da un film con Bruce Willis intitolato Hostage. A parte la sua chioma fluente e la barba lunga, con un pettine impigliato sulla guancia.
Willis è Jeff Talley, primo negoziatore della SWAT di Los Angeles: Talley è il migliore, con ogni probabilità, nel suo lavoro, che è quello di trattare con chi sta dall’altra parte della barricata, liberare gli ostaggi e fare in modo che nessuno si faccia del male. “No one dies today”, scrive sicuro di sé su un una lavagnetta comunicando in silenzio con i cecchini appostati sul tetto. Talley è un buono e un vincente, e l’inizio del film sembra la classica intro dell’eroe di tanti film già visti. E poi qualcosa va storto, qualcosa nella regia ce lo fa presagire. Talley fallisce, gli ostaggi muoiono, scompare la sua sicumera da eroe, così come la sua barba. Ha preso la decisione sbagliata, della gente è morta. Talley è un perdente.
Willis ci sta abituando da qualche tempo a ruoli più sfumati in film che fanno esplodere il genere dichiarato da dentro, senza sconvolgerne le regole, ma apportando cambiamenti a volte piccoli, a volte importanti. Hostage non fa eccezioni: anche in un lavoro come questo, uno stand-action movie, che potrebbe proseguire tranquillamente sull’onda di un’asse narrativo stilizzato ad libitum, autore e attore si divertono ad inserire preziosismi registici e nuance psicologiche per semplici che siano, finendo col fare di quei 95 minuti un’esperienza in qualche modo degna di memoria. C’è Florent Nido di vespe Siri dietro la macchina da presa. È tutto chiaro. Questo dignitoso artigiano del cinema, cresciuto sotto l’ala di Eric Rohmer e mangiando prodotti della vecchia e nuova Hollywood si sta decisamente facendo notare per la sua capacità di imporre al cinema d’azione un'impronta stilistica personale e persino originale. Siri incontra Willis, a quanto pare si piacevano già da tempo, scatta l’alchimia. Il cineasta mette a disposizione il suo occhio visionario, un po’ trasversale, la sua pirotecnica, il suo controllo del mezzo; Bruce di suo offre un personaggio che rinuncia alle caratterizzazioni un po’ bidimensionali che pure avevano funzionato sempre, dal poliziotto McClane di Die Hard in poi. C’è poca action nel film del francese, e quasi sempre Talley il perdente ne è ai margini, la subisce, è il fulcro passivo, il motore immobile. Eppure il personaggio incarnato da Willis è tutto tranne che statico o fuori fuoco. Esprime la sua potenzialità e la sua carica drammaturgica ad un livello differente. Grazie alla sceneggiatura (derivata dal romanzo omonimo dello scrittore Robert Crais) diventa un elemento di forte cinetica psicologica. L’azione che si cercava sta dentro, nelle emozioni dell’ex SWAT declassato a sceriffo di provincia (“sono solo un passacarte” dirà ad un certo punto al sospetto che tiene in pugno la vita di una intera famiglia - e lo dice credendoci: è così che si sente davvero) e nel sottile braccio di ferro psicologico che ingaggia con i cattivi della storia. È questa la ricetta vincente di uno stand- action movie, lezione impartita a suo tempo da tanti autori, ribadita anche, solo per fare un nome recente, da F. Gary Gray che ne il Negoziatore piazza in campo un icona dello psychothriller come Kevin Spacey. Il movimento è nella dialettica conflittuale tra due menti che hanno un solo canale per interagire: le parole. Il negoziatore ha solo quelle, e con quelle deve convincere il sospetto a fare quello che dice lui, lasciandogli credere che sia una propria decisione. Di armi da fuoco in mano a Willis ne vediamo ben poche. Lo vediamo ferito, maltrattato, lo vediamo piangere convincentemente, forse come in nessun film prima d’ora. Ma lo vediamo anche capace di tirare fuori strategie di prevaricazione psicologica articolate ed efficaci, e le seguiamo nei loro sviluppi, mentre, tutto intorno all’eroe pieno di macchie e di paure, la trama si incerniera inesorabile con un movimento a tenaglia. Ci sono due, forse tre forze nemiche all’opera: non si tratta soltanto della classica sinergia dentro-fuori della situazione-con-ostaggi. Una forza enorme, così sovradimensionata - rispetto alle bravate pur mortali dei tre teppisti che invadono la casa-fortezza - da non riuscire a vederne i confini, da non poter far altro che immaginarne l’identità. Mafia, sicuramente. Ma senza alcuna caratterizzazione specifica, folcloristica. Una mafia spietata, anonima, impersonale, disumana. Che si traveste da FBI, o che è l’FBI? Impossibile saperlo. Mascherati, neri, silenziosi, privi di qualsiasi appiglio al quale possa attaccarsi un negoziatore. Nemici senza psicologia, senza volto. Deja-vu.
Chi ha visto Nido di Vespe ha riconosciuto questa come precisa marca stilistica del francese. Le vespe erano le mille braccia assurde e mostruose della mafia albanese, sciamanti una notte intorno ad un capannone industriale per recuperare e salvare il loro capo mostruoso, sanguinario in maniera leggendaria. A farne le spese, quella volta, il povero Valerio Mastandrea. Ammettiamo sarcasticamente che un certo upgrade ci sia stato da allora. Quello che viene conservato, e lo si dica con gratitudine, è la visione personale che Siri ci dà dei cattivi, molto differenti da ciò con cui era abituato a confrontarsi Talley (persone con un vissuto terribile, dolentemente umane al punto da poterci entrare in contatto quasi empatico). Tanto da gettarlo nel panico più completo. I cattivi di Hostage sembrano i cattivi di Aliens. Il nemico è alieno, anzi i nemici sono degli alieni. Si muovono come loro, silenziosi e quasi impalpabili in Nido di Vespe, con un visore notturno a tre occhi (il trucco da BEM, bug eyed monster, è perfetto), neri e imperscrutabili comunque in Hostage. E la citazione del film di Scott o dei suoi illustri epigoni non è approssimativa, è quasi testuale. Ce ne rendiamo contro quando in uno degli showdown finali vediamo Mars, il più pericoloso dei tre delinquenti, correre dietro ai bambini dentro un condotto di aerazione. In realtà non corre come farebbe un essere umano. Galoppa a quattro zampe, comparendo all’improvviso da dietro un gomito nel corridoio di metallo e scartando come una strana bestia. Déjà-vu, ancora. I bambini sono Newt, la solitaria bimba sopravvissuta. Mars, d’un tratto, è uno xenomorfo, un mostro senza occhi e dalla doppia bocca. È elettrizzante. Aggiunge un tocco nuovo, specifico, al modo in cui lo spettatore percepisce la forza antagonista. E lo mette in scacco. Se non ha anima, dove sarà la forza del negoziatore? Che vinca è fuor di dubbio, ma le sorprese sono nel tipo di dialettica tra buono e cattivi che si instaura. I nemici da uomini che erano si rivelano altri, perdono ciò che li connota come persone, come umani. La strategia deve essere differente, e il povero Talley, il perdente Talley, deve improvvisare.
Tutto funziona a dovere, per lui e per noi che guardiamo il film. Le trovate sceniche e registiche sono decisamente su di giri, anche quando si ravvisa un certo iper-stilismo, una certa virtuosità, si potrebbe dire. Come nella scena in cui Mars, il pazzo Mars, ancora lui, in un disperato titanismo distruttivo dà fuoco alla casa e si avventura in uno slow motion ampolloso in un corridoio di fiamme, una molotov in ciascuna mano, lo sguardo ferino delle bestie condannate, i capelli neri che gli ballano intorno al viso. Dentro quella sequenza c’è un pizzico de Il Corvo, un po’ meno di un pizzico magari anche di Barton Fink. Monsieur Siri mangia cinema a colazione. Usa la macchina da presa con una disinvoltura sapiente, rendendola comunque sempre o quasi sempre impercettibile. Non sentiamo mai i movimenti di macchina, sentiamo il dinamismo e il pathos scenico che quel movimento tira fuori, lasciandoci concentrati su quanto stiamo vedendo, e non sull’occhio che inventa e decide per noi ciò che è visibile. Così restiamo liberi di scoprire che eravamo andati a vedere Die Hard e ci troviamo di fronte, per inquietudini e suggestioni, ad un film di fantascienza. Perlomeno, è questo il premio che vince alla fine chi con il regista sa giocare al gioco del cinema fino in fondo.