Cinema, film, recensioni, critica. Offscreen.it


Hitman - l’assassino
Hitman, Francia / Usa, 2007
di Xavier Gens, con Timothy Olyphant, Dougray Scott, Olga Kurylenko, Ulrich Thomsen

Una cattiva azione
recensione di Maurizio Di Lucchio



Facciamo una premessa. Gli action movie ci piacciono. Ci piace vedere esplosioni, scazzottate, inseguimenti e sparatorie con o senza carneficina annessa. È cinema di genere che ci ha regalato momenti memorabili, soprattutto negli ultimi anni con furbacchioni alla John Woo e con le scene dedicate di Matrix & co. Ora, molti film d’azione recenti sono tratti da videogames. E questo pure ci piace, perché ci restituisce un immaginario visivo (e spesso visionario) che in molti casi non è niente male. D’altronde, se non ci sono idee nuove ben venga ricorrere alla crossmedialità, ovvero al legittimo saccheggio degli altri mezzi di comunicazione e di entertainment. Premessa fatta.
Veniamo a Hitman - L’assassino, coproduzione franco-statunitense girata tra Istanbul, Africa e Russia e infarcita di illustri sconosciuti, facendo parziale eccezione per Timothy Olyphant (il cattivo dell’ultimo Die Hard - Vivere o morire , un incrocio vivente tra Vin Diesel e Andry Shevchenko) e Ulrich Thomsen (uno dei protagonisti di Festen, qui difficilissimo da riconoscere visto che è sontuosamente ingrassato). Il film sembra fatto apposta per creare difficoltà all’incolpevole spettatore. La prima angustia è la storia, che invece in una pellicola di genere dovrebbe essere comprensibile e funzionale al godimento delle efferatezze sopraindicate. Di questa si riesce a capire qualcosa soltanto a posteriori, previo consulto con tutti gli altri spettatori.
In pratica, se abbiamo capito bene, un killer dal nome agente 47, così chiamato per le ultime due cifre del codice a barre tatuato sulla sua nuca (il massimo, in effetti, per passare inosservati), viene addestrato sin da tenera età a sterminare essere umani (e non) per conto di una fantomatica Organizzazione che lavora per conto di governi e dittatori sanguinari. L’Interpol gli dà la caccia per mare e monti, ma non riesce mai a beccarlo perché il Nostro sa il fatto suo. E fin qui ci siamo. Poi, per citare Gianni Bella, all’improvviso l’incoscienza.
Gli viene detto di uccidere un capo di stato della Russia post-sovietica. Lui esegue ma, ahimè, dopo un’ora la tv annuncia che il suo obiettivo è ancora vivo e quindi non può ricevere il suo onesto stipendio. In realtà quello che lui vede al tg è solo un sosia (prima regola del manuale di sceneggiatura cinematografica: per motivi che è inutile spiegare, mai utilizzare i sosia, a meno che si tratti della trasposizione cinematografica de “Il sosia” di Dostoevsky) e la conferma gli viene da una presunta testimone oculare dell’attentato. Secondo i mandanti, la donna (una clamorosa attrice-gnocca ucraina, che Dio benedica lei e la sua gloriosa patria) avrebbe visto tutto, assassino compreso, e invece non ha visto nulla, perché quando lui la incrocia per strada lei dimostra di non averlo mai conosciuto prima. Complotto: i mandanti hanno “messo in mezzo” sia la donna che il killer. Che è un po’ come un film sulla mafia in cui Provenzano e Riina, anzichè prendersela con magistrati e poliziotti, se la prendono con i “picciotti” che vanno a fare gli omicidi e le estorsioni. Il buon agente 47, a questo punto, prende sotto le sue “amorevoli” cure la donna (e, udite udite, non ci prova neanche), si ricorda di avere un cuore e un’umanità e decide di uscire di scena senza fare rumore. Come? Uccidendo una miriade di persone ai quattro angoli dell’Universo. Come a dire, voglio iniziare una vita normale ma prima devo togliermi qualche sassolino dalla scarpa. A questo punto, capire per quale motivo il nostro invisibile agente deve muoversi come un dannato per mezzo mondo per poter uccidere le stesse persone che potrebbe incontrare in patria (in questo caso, la Russia) diventa impresa fuori d’umana speranza. Ricostruire il percorso che lo porta a farsi aiutare dalla Cia per sfuggire all’Interpol è roba da cervelloni: chi scrive non ci è riuscito.
Un guazzabuglio, insomma, per coprire l’altro grande limite del film, cioè le scene d’azione, quelle che dovrebbero essere il piatto forte. Tutto già visto, prevedibile. Una bolsa macedonia di fughe alla James Bond e ralenti volanti alla Matrix. Niente per cui valga la pena spendere i soldi del biglietto, a meno che non si gradisca rivedere all’infinito cose già viste. Una piccola chicca da salvare: l’assassino passa davanti a due ragazzini che giocano al videogame di Hitman. Scena metamediatica, chapeau. Peccato che sia l’unica.