Fino a prova contraria
L’immaturità dei padri
di Luca Perotti

 
  True crime, USA, 1999
di Clint Eastwood, con Clint Eastwood, Isaiah Washington, Lisa Gay Hamilton, James Woods, Denis Leary


È subdolo il Signor Eastwood. Agisce come una fastidiosa zanzara che non si limita a pungere la pelle dell’ospite con i suoi stiletti per poi far penetrare nell’incisione i vari organi del suo apparato boccale atti alla suzione del sangue.
Per evitare che quest’ultimo si coaguli, inietta anche una sostanza secreta dalle sue ghiandole salivari, ed è tale sostanza a provocarci il gonfiore e quell’antipatico prurito. Per cui noi ci lamentiamo della sua puntura, ma non soffriamo per quella.
Allo stesso modo il pungiglione di Fino a prova contraria ci stimola con un’accusa della nefandezza della pena di morte, della fallacia del giudizio scaturito da una semplicistica visione del luogo del delitto e del conseguente rischio di uccidere un innocente.
Tuttavia, responsabile dell’eritema, è la contemporanea inoculazione di un sottotesto che acquisisce vigore trasferendosi nel territorio altrettanto ambizioso dell’indagine sul fallimento di un ruolo sociale.
L’uomo di colore Frank Beechum (Isaiah Washington), prigioniero nel braccio della morte del penitenziario di San Quintino, non ha ucciso nessuno: lo scopriamo noi grazie a dei flashback, ne è convinto il reporter Steve Everett (lo stesso Clint Eastwood) grazie al suo fiuto e in virtù di una catenina strappata alla vittima dal vero colpevole e indossata dalla madre di questi.
Una madre che lo accusa di non aver fatto nessuna corsa contro il tempo quando suo figlio è stato accoltellato in uno dei tanti quartieri malfamati che pulsano malati negli angoli degli Stati Uniti.
Perché è una vera e propria corsa contro il tempo, quella di Steve - donnaiolo scavezzacollo e laconico - dilatata con i cliché del film d’azione, con un finale alla “arrivano i nostri” (nel nostro caso il protagonista ubriaco fradicio e la madre suddetta con tanto di catenina e vestaglia da notte).
L’innocente eviterà l’iniezione letale (forse! ...perché il finale ha i contorni annebbiati della favola natalizia) a conclusione della sua ultima giornata prima dell’esecuzione, scandita dai penosi tentativi delle autorità di rendere umana l’uccisione premeditata e a sangue freddo di un uomo, viziandolo con il suo cibo preferito, la visita della famiglia, il conforto di un prete. Tutto sezionato, registrato dagli sgherri del penitenziario, simili a impiegati di un ufficio contabile, a sciamani di rituali di un burocratico asetticismo.
Di una lentezza calcolata, le ore di Beechum; spasmodiche ed imprevedibili quelle di Everett.
Ma il ritmo serrato, gli americanismi, la solida sceneggiatura sono un robusto puntello di un film che analizza con pessimismo l’immaturità delle figure paterne, la loro incapacità di essere presenti, di costruire un legame con i propri figli per i quali vi è solo una mancanza, un vuoto.
Il disegno della figlia del prigioniero è un suggerimento esauriente: non c’è famiglia in quel paesaggio dai verdi pascoli. E non c’è il papà nemmeno in quello di Michelle, la ragazza morta nella sequenza iniziale.
E il padre del vero assassino dov’è? Morto? Scappato? Drogato?
Anche Steve Everett dimostra superficialità nei confronti della figlia e goffaggine nel ricoprire un ruolo per cui è palesemente impreparato.
L’immaturità della figura paterna si estende anche al confessore del braccio della morte: un pastore guitto e squallido, più smarrito delle pecorelle che dovrebbe consolare e perdonare nel nome del Padre (un’altra assenza?).
L’unico a dimostrarsi fiero e responsabile verso sua figlia è proprio Beechum, la vittima della pena capitale. Il legame con la sua bambina appare concreto ma sul punto di essere distrutto dall’uccisione del condannato: un altro padre risulterà assente, un’altra figlia dovrà colmare un vuoto per colpe non sue.
È tangibile la contraddizione di una mentalità che fonda la sua esistenza sul valore della famiglia, da sempre demagogico punto d’appoggio, ma agisce ipocritamente per salvaguardarla, spezzandone i cardini perfino mediante l’ancora più demagogica istituzione dell’assassinio di Stato, orgoglio di una politica tesa alla difesa della giustizia; strumento di una nazione convinta delle capacità deterrenti della vendetta premeditata; ma soprattutto arma per mostrare ai propri cittadini l’esistenza di un’autorità implacabile e giusta, di un genitore sempre pronto ad intervenire.
Eastwood smaschera l’irresponsabilità dei gestori della sacra istituzione familiare, facilmente proiettabile all’America stessa, sottolinea un disagio sociale che si concretizza nell’inettitudine volontaria o meno di risolvere l’incomunicabiltà nei rapporti primari, e a cui corrisponde una reiterata finzione che ci sia qualcosa di prezioso laddove non c’è nulla.