the Final Cut

Quando i ricordi non ci appartengono
di Paola Galgani

 
  id., USA, 2005
di Omar Naim, con Robin Williams, Mira Sorvino, Jim Caviezel


In barba alle recenti polemiche sul diritto alla privacy, il giovane regista Omar Naim immagina un futuro in cui alcuni dati personali potranno essere registrati e in un certo senso diffusi pubblicamente; e si tratta dei dati più intimi che possano esistere: i ricordi della propria vita.
Tra un numero indefinito di decenni, infatti, ad ogni neonato i cui genitori lo richiedano verrà impiantato un impianto consistente in microchip che registrerà tutti i ricordi che quella persona incamererà durante la propria vita. Una volta morto il “protagonista”, i suoi ricordi verranno montati adeguatamente da un professionista del settore, tramite lo stesso meccanismo con cui si realizza un film. Il filmato prodotto verrà proiettato davanti a tutti i parenti col suggestivo nome di Rememory, al momento del funerale del soggetto, in modo che tutti possano riconoscervisi ed ammirare le doti del defunto. Ad occuparsi del business internazionale è un’azienda, la Zoe Tech, il cui miglior montatore è Alan Hackman, richiestissimo dalle famiglie più in vista per la sua capacità di trasformare anche la vita più dissoluta in quella di una persona dalla grande umanità, almeno agli occhi di chi vedrà il Rememory. Inaspettatamente, mentre Alan sta lavorando al montaggio di un impianto di un alto dirigente della Zoe Tech, si trova al centro di un intrigo organizzato dai contestatori del sistema Zoe, che vogliono impossessarsi del materiale per discreditare il manager. In quel momento Alan scopre che anche lui rientra in quel gioco molto più da vicino di quanto non potesse immaginare. Le sue ossessioni cambieranno forma, e la sua vita prenderà finalmente un senso diverso.

Il genere
Tra fantascienza e thriller, il film parte molto bene, con la visione di un futuro forse non così lontano, almeno nel nostro immaginario; le promesse iniziali, però, non sono mantenute nella seconda parte, in cui la storia vira più sul giallo e gli interessanti spunti esistenziali vengono lasciati da parte in nome di un intrigo privo di grandi potenzialità.
Affascinante la costruzione del personaggio di Alan, la cui istintiva capacità di osservare le vite altrui senza lasciarsi coinvolgere, cogliendone in pochi istanti le linee essenziali, lo ha trasformato in un voyeur che non riesce a vivere in prima persona, impersonificando ed estremizzando la nostra crescente passività e spersonalizzazione di fronte alla marea di informazioni e di input cui siamo sottoposti. Così come il suo lavoro, che gli offre la possibilità di ripulire le vite altrui da ogni peccato nella speranza di purificare se stesso (lui si definisce un “divoratore di peccati”), non rappresenta che un’esasperazione dell’ipocrisia della nostra società, sempre pronta a chiudere gli occhi quando più le conviene. Peccato però che il senso di colpa che lo conduce a dare questa piega alla sua esistenza sia sintetizzato un po’ banalmente nelle scene di apertura del film che procurano un deludente effetto déjà-vu, fortunatamente non ripetuto in seguito. Se la sceneggiatura in alcuni tratti appare piuttosto sfilacciata, per esempio nella descrizione del rapporto tra Alan e la donna amata, e soprattutto nell’intrigo finale in cui risaltano numerose incoerenze, curatissimo è invece l’aspetto tecnico.

Lo stile
Di grande effetto l’idea degli scenografi per la realizzazione dell’oggetto protagonista del film, la Guillotine, lo strumento principale del montatore con cui utilizzare il Final Cut - uno dei più diffusi programmi di montaggio da cui viene il titolo. Il maestoso computer, tutto scavato nel legno massiccio, regna sovrano nell’asettica stanza di Alan, a simboleggiare la sicurezza della tradizione congiunta ad un’inquietante modernità tecnologica tesa ai suoi vertici più estremi.
L’esordiente Omar Naim, di origine libanese, è autore sia della sceneggiatura, nata da una sua antica ossessione di voler intervistare tutti i membri della sua famiglia per 20 ore per capire se stesso, sia della regia, che presenta tratti originali, pur nel rispetto di ciò che richiede il genere. Per esempio, il filmato che mostra lo speciale punto di vista della Zoe è stato creato da un’unità di regia che registra per mezzo di uno speciale tipo di tecnologia digitale, con la steadycam rigorosamente in soggettiva, i ricordi dei soggetti che possiedono il microchip. Anche la fotografia è di elevata qualità, grazie a Tak Fujimoto, uno dei più stimati direttori della fotografia attualmente sul mercato, indimenticabile autore di Il Silenzio degli innocenti, Philadelphia, Il Sesto senso, Signs, The Manchurian Candidate, e ancora Il Gladiatore. Essendo poi il montaggio l’argomento principale della storia, i produttori non potevano certo lesinare su quest’aspetto: l’hanno infatti affidato ad una delle montatrici più valide in assoluto, Dede Allen (insieme a Robert Brakey).

Il tema
Il film insomma è impeccabile dal punto di vista tecnico, ma alla fine privo di uno spessore coinvolgente, nonostante il produttore Nick Wechsler abbia dichiarato di aver voluto costruire una storia più drammatica che di fantascienza, dato il tema - il senso stesso della vita umana - impegnativo e ricco di potenzialità, le quali però non vengono sfruttate adeguatamente. “Nel corso del film”, dice Wechsler, “abbiamo scoperto una quantità di articoli relativi ai microchip che rintracciano gli individui, che ricostruiscono gli avvenimenti della loro vita, che fondamentalmente controllano la gente impiegata al Pentagono o alla CIA; sicuramente questa tecnologia verrà presto estesa e servirà a rintracciare la gente comune, qualora lo desideri. Il progetto è un’estensione di ciò che accade oggigiorno con i reality show”. Robin Williams si dice d’accordo: “Si tratta dell’ultimissima tendenza dell’home-movie. Il tutto è iniziato con la fotografia digitale. Oggi la gente mette le cineprese nelle camere da letto, per vedere tutto”. L’attore, in ottima forma, ha dato vita ad una figura intensa e struggente, nonostante le imperfezioni della storia. Curiosamente di recente gli è toccato spesso di interpretare un voyeur: anche in One Hour Photo aveva lo stesso destino. Williams è accompagnato da un’affascinante Mira Sorvino che riesce ad essere convincente pur nei panni di un personaggio senza verve, la proprietaria di un negozio di libri antichi. In simbolico contrasto con l’eccesso di modernità che la circonda, a lei tocca l’ingrato ed inutile compito di aprire gli occhi ad Alan sulla sua assurda realtà. Peccato che lo faccia attraverso domande ed osservazioni non proprio originali e di cui avremmo potuto fare facilmente a meno senza per questo sentire danneggiata l’efficacia della narrazione.