i Figli degli uomini

Il pubblico-reporter
di Manuela Latini

 
  Children of Men, Inghilterra / Usa, 2006
di Alfonso Cùaron, con Clive Owen, Julianne Moore, Michael Caine, Clare-Hope Asitey


La prima impressione che ho avuto incontrando il regista Alfonso Cùaron nella conferenza stampa che ha introdotto il film è stata che si trattasse di un uomo informale, schietto e politicamente impegnato: un vero intellettuale. Una sagace e piacevole ironia è comparsa immediatamente dopo. Ha ammesso che il suo è un film costoso che non avrebbe mai potuto girare con l’incasso del trasgressivo Anche tua madre che lo ha lanciato nel 2001. Per questo ha realizzato un film di sicuro successo commerciale come Harry Potter e il prigioniero di Azkaban. Ben venga questa alternanza se il risultato è una pellicola davvero interessante che si ispira al cinèma veritè, con i pregi della bella fotografia e la profondità di una denuncia politica e ambientalista. I pericoli di una apparente democrazia che nasconde un violento razzismo e una dura repressione non sono poi tanto lontani da noi, ha spiegato Cuaron. Children of Men e Babel di Inàrritu sono in questo senso film gemelli e non solo perché i loro registi sono entrambi messicani. La preoccupazione che sta alla base del loro pensiero è la rotta che sta prendendo l’animo umano, uno sguardo che non vuole essere esteriore, super partes, ma coinvolto, parte in causa. Perciò Children of Men chiama il pubblico a testimoniare. Lo trasforma nell’occhio di un reporter che vive la guerra civile sulla linea del fronte e si sporca di sangue.
Un bel plot, un tratto stilistico originale, una grande cura per la colonna sonora e per la direzione degli attori: un’opera che travolge lo spettatore e lo fa pensare.
Tratto dal romanzo “Children of Men” di Phyllis Dorothy James e adattato da Cùaron e David Arata, il film diretto dal giovane talento ci trascina nella Londra del 2027, scura e lacerata da guerre civili, attacchi terroristici e telegiornali che diffondono notizie funeree. L’incipit è surreale e un po’ comico: il ragazzo più giovane del paese, il diciottenne “Baby” Diego Ricardo, muore accoltellato. Ora il mondo è spacciato, tutti si rendono conto pian piano di aver dimenticato il dolce suono del pianto di un bambino. Sono 18 anni che non ne nasce più uno a causa di una infertilità dilagante che evidentemente colpisce l’uomo come il sistema eco-ambientale. In queste strade umide con un’architettura a metà tra il post atomico e il pre-industriale, i cavalli carbonizzati, le macchine modificate (ad esempio una Fiat Multipla) e degli strani tricicli, Theo (Clive Owen) cammina con sguardo perplesso. È l’antieroe che non crede più in nulla solo perché ha perso tutto (anche un figlio) e che Cùaron si diverte a disegnare impacciato e gigione. Fa subito tenerezza e lo si trasforma presto nel redentore.
Theo viene rapito da brutti ceffi incappucciati (l’unico neo del film sono proprio questi terroristi, caotici e improbabili doppiogiochisti) che lo portano della sua ex compagna di vita e di attivismo politico, la sensuale e versatile Julianne Moore: Julianne gli chiede aiuto per trasportare una donna immigrata fino alla sede del mitico e non meglio specificato Human Project. Tranne negargli la conoscenza di un piccolo particolare: questa profuga, Kee (Clare-Hope Asitey), è la custode del futuro dell’uomo, la continuità della vita e la speranza. È la prima donna fertile dopo 18 anni ed è incinta. È africana perché Cùaron ci teneva che la culla dell’uomo fosse di nuovo un paese sfruttato e denigrato, come una strana beffa del destino. Il film gioca con gli archetipi (ad esempio un certo ascetismo indiano massificato e superficiale) allontanandosi dichiaratamente dalla visione e dall’interpretazione spirituale del romanzo, trasformando i protagonisti in novelli ma anomali Giuseppe e Maria che dopo un lungo itinerario di fughe fanno nascere il salvatore dell’uomo in una bettola e fermano il rumoreggiare della guerra con il pianto dimenticato di un bimbo. Quello della guerra civile è l’ultimo piano sequenza del film: un magistrale pezzo di cinema che lascia davvero con il fiato sospeso, l’effetto è dato anche dalla continuità delle immagini; Cùaron fa usare al suo operatore la macchina a mano e la steadycam, rifiuta un montaggio troppo presente. Eppure non manca mai un punto di vista originale all’interno dello spazio, movimenti a sorpresa e una composizione dell’inquadratura che cerca la bellezza formale e la pienezza. La colonna sonora anni ‘70 con i Rolling Stones e il pezzo originale del compositore John Tavaner ci avvicina ancora di più a questo 2027, idealmente una specie di diluvio universale a cui sopravvivono solo i passeggeri della nave Tomorrow, speranzosi di attraccare l’ancora in una terra in cui almeno non sia lecito combattere una guerra per poter assistere al miracolo della nascita.