Femme fatale

Doppia visione
di Adriano Ercolani e Carlo Benedetto

 
 
Sonno fatale
di Adriano Ercolani
Femme fatale, Francia, 2002
di Brian De Palma, con Rebecca Romijn-Stamos, Antonio Banderas, Peter Coyote, Gregg Henry

Volete sapere che fine ha fatto Brian De Palma? Volete conoscere il suo nuovo piano ingegnoso? Volete, in poche parole, sciogliere il mistero Femme fatale?
Bene, vi forniremo le prove necessarie per la comprensione dell’intrigo, e vi sveleremo la soluzione finale. Accomodatevi.

- Elemento n° 1: per la prima volta dalla costituzione della nuova redazione di Off-screen, tutti e cinque i componenti si sono radunati per andare a vedere questo nuovo film di Brian De Palma, “esiliato” in terra francese per avere piena libertà produttiva ed artistica sulla propria opera. Scritto e diretto da uno dei più grandi talenti registici degli ultimi trent’anni, Femme Fatale si era infiltrato nel nostro immaginario come una di quelle chicche nascoste che la critica ufficiale snobba perché non comprende, e che invece noi avremmo esaltato a difeso a spada tratta, paladini ormai solitari in difesa del cinema con la “C” maiuscola…
- Elemento n° 2: io, che ormai a forza di scrivere di cinema gratis sono ridotto sul lastrico, non entravo in sala a prezzo pieno da non ricordo più nemmeno quanto tempo; tra anteprime stampa, sconti nei vari circuiti con tessera-indigenti, partite di calcetto saltate il mercoledì sera, mi sono sempre barcamenato per evitare di dare quindicimilalire (sette euro e mezzo, scusate!) a chicchessia, fosse anche Kubrick resuscitato che mi gira il seguito di Arancia meccanica (oppure Spielberg per lui, magari dopo aver trovato un bozzetto del maestro sulla nuova cameretta di Alex, ormai sessantenne sdentato, ma con i nipotini teppistelli anzi che no…).
- Elemento n° 3: per quanto riguarda il sottoscritto e Luca Persiani, compagni abituali di cinema e spettatori incalliti di qualsiasi cosa si proietti dentro una sala, abbiamo elaborato nel corso degli anni un sistema di attenzione e di interesse per l’opera inversamente proporzionale al rumore che facciamo durante lo spettacolo. A seconda della validità della pellicola, si passa dall’apnea più assoluta (frequenti le crisi di asfissia, io sono asmatico…) agli schiamazzi più irriverenti. Lo so, non è una bella cosa da ammettere per un cinefilo, ma con tutti i film che vediamo, un sistema di difesa alla fine è stato necessario…

SOLUZIONE: A circa mezz’ora dalla fine del film, il Persiani ed io eravamo in piedi sui sedili a cantare a squarciagola “Knockin’ on heaven’s door” (versione Guns ‘n’ Roses), con i biglietti del cinema infilati nelle orecchie come tappi. Il resto della redazione ci supportava con un coretto niente male, davvero niente male. Gli spettatori in sala facevano la “hola” ed hanno iniziato a delirare quando il Persiani si è tolto le mutande senza togliersi i pantaloni. E le maschere? Abbracciate l’una all’altra, ruotavano in alto gli accendini accesi e facevano il segno della pace… Ebbene, come avrete capito, Femme fatale è una delle più cocenti delusioni cinematografiche di questo scorcio di anno solare; De Palma toppa sotto molti punti di vista, primo tra tutti quello di aver voluto scrivere una sceneggiatura che risulta essere poco più di un canovaccio, e che a tre quarti di film ci propone uno snodo narrativo inutile e fastidioso, che serve soltanto per inserire un finale che avevamo già visto e che già la prima volta non ci aveva particolarmente interessato. E’ già capitato in passato che l’autore di Carlito’s way (id., 1993) girasse grandi opere basandosi su script non eccelsi, perciò a fallire in questo caso è anche la regia, che scimmiotta malamente tutte le precedenti prove del cineasta senza mai trovare una via propria, originale, autentica. La sequenza iniziale del furto, l’unica che in un certo qual modo funziona, è però una riproposizione più scialba e monocorde dell’incipit di Mission: impossible (id., 1996), che a sua volta non era tra i lavori più memorabili dell’autore. Il resto del film è poi una sequenza ininterrotta di virtuosismi inutili e ripetitivi, con tanto di split-screen reiterati che diventano ad un certo punto una parodia involontaria dell’uso che De Palma ne aveva fatto in passato. Insomma, tutte le “magie” che hanno reso questo cineasta uno dei “maestri” del cinema americano contemporaneo stavolta servono soltanto per sotterrare definitivamente una pellicola “sbagliata”, insensata, fuori asse. Sembra quasi che Femme fatale sia un film diretto da uno che si sia visto tutti i film di Brian De Palma ed abbia cercato di imitarlo, senza capire cosa sia effettivamente un film di Brian De Palma.

Fuori e dentro un sogno noir
di Carlo Benedetto
Con un pedinamento della protagonista condotto persino fuoricampo, e spesso accentuato da lunghi piano sequenza che riflettono uno sguardo lucido e seducente, non privo - così come l’intera, laboriosa sequenza iniziale – di una sorta di autoreferenzialità da parte dell’autore, inizia il passaggio dalla “veglia del vedere” al “sogno del cinema”. Una sorta di ellissi visibile con il compito di guidare lo spettatore da un livello filmico ad un altro, finendo in alcuni momenti per indurlo a farne addirittura parte.
Ha dichiarato De Palma in un’intervista: “Mi addormentavo a notte fonda vedendo un noir, ritrovandomi a sognare di essere il marito della Stanwyck che ammazza l’amante”. Come se il noir, più di ogni altro genere, facilitasse l’ingresso nella zona attiva-passiva dell’identificazione, grazie alla complicità di un’atmosfera molto prossima a quella singolare del sogno. La citazione, all’inizio di Femme Fatale, tratta da quel capolavoro assoluto che è La fiamma del peccato e che la protagonista guarda con solitaria avidità nella sua stanza d’albergo, sembra in effetti avere la funzione di avallare la messa in scena che seguirà.
Così, quando i rapinatori creano un “blow-out” nel palazzo del Cinema di Cannes per rubare i gioielli, il susseguente buio totale e l’interruzione della proiezione del film che sta per cominciare, potrebbe coincidere con quegli istanti di passaggio dalla dimensione vaga del dormiveglia a quella del sogno, dimensione irreale, sicuramente indefinita ma corredata di regole proprie. La cecità indotta di tutti i presenti, nella scena in questione, contrasta con “l’abilitazione a vedere” da parte della protagonista che prontamente indossa la maschera a raggi infrarossi. Il suo sguardo in soggettiva comincia da lì a coincidere con il nostro; come il punto di partenza di un sogno che va a sua volta a combaciare con l’inizio del film vero e proprio e che si innesca a livello narrativo in virtù di questa cesura dello sguardo.
La stessa protagonista ci suggerisce tutto questo partendo da una fotografia, per poi fuggire dalla realtà ed immergersi nella suggestione onirica. Qui comincia un’operazione di sceneggiatura che tende ad allinearsi sui parametri del noir classico ma mantenendo le linee guida del sogno freudiano, in quanto è l’inconscio a suggerire la più diretta via di fuga per la protagonista, fuga soprattutto da se stessa e dalla sua condizione di Femme Fatale.
Una sosia che sì autoelimina lasciando un passaporto con un biglietto aereo è l’escamotage narrativo estremo scelto da De Palma per creare una corrispondenza tra le regole del suo film e quelle dei sogni, regole perciò naturalmente esagerate, fieramente inverosimili.
Le musiche di Ryuichi Sakamoto sono perfette; un pianoforte ci accompagna per tutto il film senza mai insorgere, come non ci fosse, sulla falsariga del “sonoro invisibile” tipico della dimensione onirica, piacevolmente, preziosamente presente eppure secondario, non indispensabile.
L’autore evidenzia subito la centralità della protagonista che ci trasporta nel sogno mentre tutto ruota intorno a lei; gestisce i personaggi in scena ed ammicca allo spettatore, lo vizia; come quando, estremizzando alla lettera la definizione di voyeurismo, fa esibire la “fatale” Rebecca Romjin-Stamos in una lap-dance “da sogno”, più diretta a noi che ai personaggi del film che la stanno effettivamente osservando: un ingresso a pieno titolo, da parte dello spettatore, nella visione filmica di De Palma.
Infine, in un ironico gioco di sguardi insistito e portato all’estremo e che si lega alle ossessioni depalmiane già riconfermate in Omicidio in diretta, l’autore, con una sola inquadratura, mostra come la Femme Fatale causi l’incidente che chiude la storia riflettendo un fascio di luce. Tutto documentato dal fotografo Antonio Banderas, ennesimo personaggio guardante e guardato, collocato in quella zona di mezzo tra l’occhio dello spettatore e il testo filmico, ovvero tra gli interscambiabili poli opposti della traiettoria degli sguardi che “fanno” il cinema.
Billy Wilder affermò una volta che incentrare un film su un sogno significava buttare i soldi. Forse. Ma anche Kubrick si è lasciato indurre in tentazione e ora anche De Palma. Che lo scomparso autore di uno splendido “sogno noir” come La fiamma del peccato avesse torto?