the Eye 2

L’occhio che cambia
di Emanuele Boccianti

 
  Jian gui 2, Hong Kong/Tailandia 2004
di Oxide Pang Chun e Danny Pang, con Qi Shu, Eugenia Yuan, Jesdaporn Pholdee


Non sono tempi facili per un regista che voglia tentare strade nuove girando uno shocker, un film che basi cioè la sua forza, la sua aggressività, sull’alternanza di tensioni ed esplosioni improvvise di paura. E questo Oxide e Danny Pang lo sanno bene. Quel che di sperimentale e a suo modo innovativo c’era in The Eye, quanto meno nelle intenzioni, viene ripreso, amplificato ed in certo senso radicalizzato nella nuova release, The Eye 2, costringendo così i due gemelli a camminare sul ghiaccio sottile. Perché ad essere spinto alle estreme conseguenze è l’innesco visivo, vero catalizzatore dell’energia del film, come già il titolo dichiara, con un deciso sbilanciamento a scapito della motrice narrativa: mentre la prima storia vantava un ordito magari non particolarmente complesso e articolato, ma sicuramente cogente e comunque autonomo, proprietario di un suo pur minimo baricentro, nel secondo film la funzionalità del plot al taglio formale, all’estetica della visione, è esplicita, e ne causa purtroppo una decisa subordinazione.
Sembrerebbe che i due si siano interrogati a tavolino su come sia possibile, ora come ora, produrre una ghost story che faccia saltare sulla poltrona, e si siano risposti: semplicemente facendo vedere. I fantasmi sono fantasmi, presenti nel genere horror sin dall’inizio dei tempi e via via fino alle ultime vette che proprio certo nuovo cinema orientale ha contribuito a raggiungere. L’assioma di base, semplicissimo, è che vedere la gente morta deve mettere una paura del diavolo. Ma come si può vedere uno spettro con occhio nuovo, aggirando l’immunità che ogni spettatore ha ormai acquisito di fronte alla più classica icona del terrore? Cambiando l’occhio, appunto. Nel primo film effettivamente era proprio l’organo di senso a venire riconfigurato, modificato con un malaugurato trapianto: e ciò che la protagonista esperiva era proprio l’espressione metaforica di questo escamotage. Cambio di occhi, cambio di percezioni, nuova paura. La maniacale attenzione per la costruzione di una scena clou, preparata con una cura lunga e minuziosa, per trovare il rilascio del suo potenziale drammatico all’interno di contesti assolutamente neutri (un ascensore, una tavola calda, lo studio di un insegnante) è stata probabilmente alla base di un successo più che discreto come quello che The Eye ha in effetti avuto. Giro di vite in The Eye 2. Corpi sospesi nel vuoto, fluttuanti come se stessero sott’acqua, ma anche corpi in preda ad attacchi di vomito o sotto i ferri del chirurgo, per un parto improvvisato; corpi che traboccano sangue, umori e candidi liquidi gastrici; corpi in preda a crisi convulsive, o scomposti per l’impatto con l’asfalto, immersi in una pozza di sangue, con occhi che roteano in maniera disturbante mentre dalla bocca escono frasi assurde nella loro quasi normalità: questo è il lavoro di cesello dei Pang, un lavoro di fino fatto a cominciare dal colore della fotografia (Oxide Pang nasce come esperto analista di stampa del colore), e di questo va dato loro atto. È qui il merito del film, il suggerire una maniera microscopica di costruire la paura, agendo solamente sulla percezione visiva e sull’effetto della somma algebrica di più sequenze impostate manipolando la grana fine dell’immagine base. Scarso, quasi nullo, il ricorso ad un uso massivo del digitale come architettura dell’effetto speciale.
Il fantasma della donna che perseguita Joey non fa paura, disturba: disturba la sua postura, il suo sguardo - l’attrice ha un taglio degli occhi molto particolare, che la rende brutta senza esserlo - la differenza appena percettibile dei suoi colori rispetto al resto della gente che ha intorno, nella scena del suicidio in metropolitana. La madre e il bambino che cadono ex abrupto da chissà quale piano sull’asfalto, ad un passo dalla povera Joey, schiantandosi e distorcendo i loro corpi come fossero bambole, mentre un attimo prima l’immagine era nuda e vuota (e silenziosa: solo la protagonista che si sporge oltre il marciapiede a raccogliere una moneta) è forse il momento più deciso ed efficace di tutto il film, completamente rovinato nel suo effetto peculiare per essere anticipato nei trailer; ancora una volta è precipuamente un fatto di costruzione fotografica dell’immagine. Da questo punto di vista, va ribadito, la scommessa dei due gemelli, se proprio non è vinta in tutto e per tutto, sembra una scommessa fatta con buona cognizione di causa.
Non è vinta per un problema di equilibrio tra le parti, di armonia complessiva. Tanto è il tempo che la regia si prende per architettare le visioni, tanta è l’attenzione che viene tolta alla costruzione di uno snodo narrativo che possa sorreggere un approccio sensoriale così a fondo meditato. Non è un caso infatti che la parte della sceneggiatura deputata alla funzione esplicativa, così delicata in un film del genere, sia tutta svolta da un unico dialogo, spezzato in brani sparsi un po’ qui e un po’ lì nel secondo e terzo atto, tra Joey e un monaco buddista, infilato nella storia in maniera del tutto giustapposta, artificiosa. Due teste parlanti che didascalizzano il film con dei veri e propri a parte, per esonerare la trama vera e propria dal dovere di rendere conto del senso di ciò che sta capitando. L’andamento del film risulta in ultima analisi lento, in più punti incespicante, appunto perchè le sue tappe forzate sono proprio le esplosioni, gli shock visuali: sono questi i numerosi fuochi di una storia ellittica che viene piegata ad assecondare i ritmi di tali climax, e non modellata per esprimere se stessa in quanto narrazione, cioè dramma vissuto e quindi ri-vivibile, raccontabile.
Se il prossimo The Eye, magari già nei pensieri dei due registi (intanto in America hanno acquisito i diritti per un remake a stelle e strisce, come da un po’ di tempo è di prammatica, e c’è lo zampino di Tom Cruise) riuscirà a tenere fermi i traguardi conquistati e recupererà quell’attenzione per la sceneggiatura mostrata in nuce nel primo film, potremmo trovarci di fronte, non si può mai sapere, ad un’opera del calibro di The Ring. Un buon bilanciamento dinamico di storia e allucinazioni, un doppio colpo alla testa e allo stomaco. Anzi, agli occhi.