l'Esorcista - la genesi
Il signore delle mosche digitali
di Emanuele Boccianti

 
  Exorcist: The Beginning, Usa, 2004
di Renny Harlin, con Stellan Skarsgård, Izabella Scorupco, James D’Arcy


Partiamo dal presupposto, così, per amor d’ipotesi, che si sentisse il bisogno di sapere – e vedere - il “prima”: che davvero la storia di padre Merrin, L’Esorcista, avesse da guadagnare nell’implementare un passato, la sua giovinezza, cose successe decenni prima. Tralasciamo la regola non scritta secondo cui il fascino di certe narrazioni deriva anche in parte da trascorsi non detti, appena accennati, percettibili solo con la coda dell’occhio, per così dire (“Un esorcismo in Africa, durato addirittura alcuni mesi…” dicono nel capolavoro di Friedkin a proposito di padre Merrin). Facciamoci trasportare dal voyeurismo di quello spettatore un po’ bovino che vuole vedere e sapere sempre di più, sempre tutto, se possibile. Ne L’Esorcista - La Genesi magari non vediamo tutto, ma di certo vediamo troppo.
La sensazione è quella di stare di fronte ad un sipario che si divarica frontalmente, si spalanca, mostra il mostro (e il fianco) come la pellicola capostipite non aveva fatto. La struttura narrativa ne risente sensibilmente, di conseguenza, configurandosi come una sarabanda di avvenimenti incastonati in uno scenario fintamente esotico (l’Egitto), con un andamento a spirale centripeta, diretta pedissequamente verso il nucleo della storia, che è, neanche a dirlo, la prima manifestazione del demone sumero Pazuzu. Tutto sa di trompe l’œil in questo Egitto riprodotto a Cinecittà (malgrado gli sforzi riconoscibili di Storaro con la sua fotografia sabbiata), a partire da dettagli come il fumo digitale evidentissimo che esce dai comignoli del villaggio o gli sciami di mosche, altrettanto palesemente digitali, che infestano la chiesa dissepolta nel deserto: niente più che una manciata di punti neri applicati con tecnica da post-produzione casalinga contro i quali il povero Skarsgård smanaccia goffamente, tradendo la loro posticcia applicazione. E non si tratta di andare a cercare il pelo nell’uovo, perché la sensazione di trovarsi di fronte a degli apporti aggiuntivi è un po’ il leitmotiv del film, il suo principio ordinatore. Come un velo, una pellicola che è stata sovrapposta a quella cinematografica originale, ma ovviamente senza coprirla; così da permettere il ricordo del film di Friedkin in filigrana, “beneficiando” di una spruzzata di trucchi presi dal campionario del nuovo cinema horror. Ne esce un film da guardare con un occhio solo; quello chiuso avrà così la possibilità di riandare con la memoria alle suggestioni del primo Esorcista, quello spalancato potrà gustarsi, se ci riesce, scaglie di mestiere hollywoodiano piazzate qua e là dal taglialegna Renny Harlin, responsabile di sfaceli come Driven o prodotti un po’ più composti e compiuti come Blu Profondo.
Ma dovrà trattarsi di un occhio di bocca buona. Il punto è che la vera vittima del film è il telaio narrativo, concepito come sostrato per permettere situazioni di tensione artificiosamente costruita, in cui i vari personaggi si trovano costretti a fare quello che fanno più che altro per creare un supporto alle varie scene; scene attraverso cui, come in un tunnel delle streghe da luna park, lo spettatore viene condotto per poi essere pungolato con perentorietà pavloviana con suoni improvvisi, belve feroci, o, a scelta, momenti da drammone strappalacrime. Anche se poi il dramma resta più nelle intenzioni, fittizio come molto altro, del resto, vedi l’episodio nel passato di Lankester Merrin, a tu per tu con i nazisti, soliti cattivi prêt-à-porter in comodato d’uso al cinema americano, di facile presa sul pubblico e politicamente agevoli.
Destinato a fallire è quindi ogni tentativo di chi vorrebbe trovare un senso nelle azioni dei protagonisti: fatti, decisioni, strategie attuate da questi ultimi si rivelano molto presto per quello che sono, ossia pretesti, puntelli per tenere in piedi la cara, vecchia cormaniana messinscena della paura. Il che è tipico di molti prodotti di medio e basso cabotaggio: la presentazione di caroselli di scene sostenuti interamente da effetti audio e video, ad ostentare ciò che non è possibile suggerire. Per il motivo non troppo scontato che si possono suggerire solo le cose con una certa pregnanza, narrativa o visiva che sia. Le altre, per l’appunto, quell’occhio spalancato di cui sopra può vedersele pure gridare addosso. Tant’è.