l'Eredita
La decantazione del Dogma
di Carlo Vargas

 
  Arven, Danimarca/Svezia, 2003
di Per Fly, con Ulrich Thomsen, Lars Brygmann, Lisa Werlinder, Karina Skands


Fa impressione pensarci, ma sono passati quasi dieci anni dal piccolo colpo di scena del Dogma 95, dai suoi intenti giocosamente furibondi, dalle sue contraddizioni ostentate, dai suoi falsi rigori estetici, tutti finiti per essere seppelliti dai suoi stessi fautori, anche troppo frettolosamente. L’eredità non è un film dogma, eppure è difficile abbandonare la sensazione di percepirlo almeno in parte come tale: la produzione è la Zentropa di von Trier, il protagonista è quell’Ulrich Thomsen rimasto nella mente come figlio ribelle di Festen, in scena vediamo sfilare di nuovo un dramma famigliare e le perversioni che si raccolgono intorno al focolare, di nuovo, anche se in modo molto più controllato, la grana del digitale e una messinscena essenziale ci offrono volontariamente una visione spoglia, diretta.
Eppure, dicevamo, L’eredità non è un film dogma e a pensarci bene è un peccato, perché sembra apparirne una rilettura depurata, decantata, che rinuncia (e qualcuno tirerà un sospiro di sollievo…) all’esasperazione drammatica e a un certo furore stilistico, ma senza riuscire a compensare fino in fondo la mancanza di entrambi: la vicenda di Cristoffer, chiamato suo malgrado a dirigere gli affari di famiglia dopo l’inaspettato suicidio del padre, sarebbe infatti sulla carta una vera e propria discesa emotiva agli inferi, direttamente proporzionale al potere che via via egli riesce a conquistare, con crescente cupidigia. Soggiogato dalla madre, costretto ad abbandonare la moglie attrice e il figlio che lei aspetta, obbligato a compiere una serie di carognate verso i compagni di un tempo, Cristoffer viene catapultato in una fabula di fosco spessore shakespeariano, una saga famigliare piena di rancori e di violenze sotterranee: tuttavia, il film non ha né la voglia né il coraggio di assumere una prospettiva realmente tragica, né di correre il rischio di imboccare la strada del melodramma e dei suoi eccessi sempre sull’orlo del ridicolo, strada che lo stesso von Trier ha percorso con folle maestria.
Il risultato, insomma, ha poca grinta, perde capacità di coinvolgimento nella sua ansia pure apprezzabile di puntualizzare una serie di dettagli e soprattutto di operare una drammaturgia trattenuta e pulitissima, di rigore quasi matematico. Il fatto è che molte emozioni (o meglio le possibilità di comunicarne l’impatto allo spettatore) seguono percorsi più contorti, cioè non possono farsi largo attraverso una griglia di simile precisione, a meno che non si effettui l’apertura volontaria di una falla, di uno strappo, anche a costo di mettere a repentaglio la verosimiglianza del tutto. Non è un caso, dunque, che la sequenza più intensa appaia quella del tentato stupro della cameriera: solo e abbandonato dalla moglie in una villa lussuosa della Francia, in preda a una sbornia e alla depressione, Cristoffer senza alcuna ragione prova a violentare la ragazza che sta pulendo la piscina, in un momento di vuoto interiore e di cieco rancore che genera effetti incontrollabili. In realtà è proprio l’imprevedibile incongruenza del gesto, incongruenza con il resto della storia e della psicologia di Cristoffer, ad assumere un’alta densità di senso, capace di sovvertire per un attimo la perfetta scacchiera su cui si muove il film. Per riscattarne la prolungata debolezza, di strappi simili ne sarebbero serviti però molti altri, sarebbe appunto servita quell’indulgenza dogmatica verso il parossismo, disturbante e anche furba quanto si vuole, ma che si arriva quasi a rimpiangere. Ma sono passati veramente dieci anni?