il Destino di un cavaliere
I fondamenti dell'affabulazione
di Luca Persiani

 
  A Knight's Tale, Usa 2001
di Brian Helgeland, con Heath Ledger, Rufus Sewell, Shannyn Sossamon, Paul Bettany, Laura Fraser


Ancora una volta qualcuno ci ricorda qual è l'unica cosa necessaria nel cinema: il racconto. "Come" e "cosa" possono variare, ma ciò che importante è evocare comunque un fascino emotivo dalla materia trattata. Poi è possibile, una volta creata una struttura forte e appassionante, giocare come si vuole sul racconto. Il regista-sceneggiatore Brian Helgeland di strutture forti se ne intende (vedi L.A. Confidential). Sa benissimo come catturare lo spettatore, e si permette di costruire un modello di sceneggiatura per certi versi abbastanza desueto (anche se visto recentemente in Planet of the apes): quello in cui l'eroe ha per gran parte del film la funzione di "catalizzatore" (Chris Vogler). Con questo termine si intende un personaggio principale che non ha (o non sembra avere) un arco narrativo, quindi un percorso di cambiamento, particolarmente marcato: il nostro cavaliere sembra ben deciso dall'inizio a fare quello che vuole fare. Non ha il problema di sottrarsi alla chiamata dell'azione, di superare scogli interiori che lo ostacolano, e così via. Il compito di questo tipo di personaggio è quello di spingere il mondo che ha intorno all'azione. Tutte le tappe che generalmente l'eroe subisce (la decisione di diventare cavaliere, la scelta di corteggiare la dama altolocata, e così via), qui è lui ad imporle, per imprimere alla storia movimento. Fino ad arrivare ad un punto in cui l'eroe è cosciente, contro tutti i personaggi intorno a lui e prima ancora dello spettatore e della stessa narrazione, che oramai è divenuto quello che voleva essere. Il cavaliere William ha "cambiato il corso delle stelle", ha nuovi doveri e nuove imposizioni morali e non fuggirà di fronte ad una delle ultime soglie: la rivelazione al mondo della sua vera identità e il suo arresto. Helgeland prende l'eroe e lo tratta nel più interessante dei modi, facendoci prima credere che ci sta raccontando l'archetipo puro del catalizzatore, poi svelandoci che anche William ha alle spalle un percorso ben preciso ed intenso. Prima mette il pubblico davanti ad una storia relativamente innocua (un protagonista senza attriti interni ha poche speranze di sviluppare una temperatura drammatica veramente emozionante), poi lo spiazza scavando in profondità e commuovendoci con un incontro tanto semplice quanto efficace: quello di William col padre. Di fronte ad un racconto così ben intessuto, Helgeland si sbizzarrisce con trovate a volte stranianti ma assolutamente felici: l'utilizzo coinvolgente di una colonna sonora rock, la presenza di personaggi femminili ben delineati e assolutamente moderni nella loro caratterizzazione (su tutte, naturalmente, Shannyn Sossamon), la presenza di Chaucer caratterizzato come uno dei personaggi dei suoi "Racconti di Canterbury", e ancora la semplicità e precisione con cui è disegnato ogni personaggio di contorno. Ne viene fuori un oliatissimo, robusto e appassionante spettacolo che con le sue "stranezze" incarna alla perfezione uno dei temi del film: "tutto è possibile". E pone di nuovo prepotentemente all'attenzione Hollywood il concetto di intrattenimento basato sull'affabulazione che sembrava ultimamente un po' perso tra i miliardi dei (per altro molto interessanti) esperimenti di "iperstilizzazione narrativa" alla Pearl Harbour, e che è stato invece già recuperato dal -o, da un certo punto di vista, per mezzo del quale è risorto il- cinema d'animazione, dall'esperienza della Pixar (da Toy story a Shrek) fino a quella della Aardman (Galline in fuga).