le Crociate

Lo spettacolo della consapevolezza
di Luca Persiani

Intervista a Ridley Scott
  Kingdom of heaven, USA, 2005
di Ridley Scott, con Orlando Bloom, Liam Neeson, Jeremy Irons, David Thewlis, Eva Green, Ghassan Massoud, Brendan Gleeson, Marton Csokas


Superando l'idea narrativa alla base de il Gladiatore, l'interesse principale de le Crociate non è tanto la trasformazione del giovane maniscalco protagonista in uomo, quanto la lucida descrizione della guerra (santa o no) per quello che è: politica, potere, morte.
La costruzione dei personaggi nel primo atto del film appare esageratamente affrettata. La magistrale asciuttezza narrativa di Ridley Scott sembra spingersi troppo oltre nel sintetizzare la storia del maniscalco Baliano (Bloom) e del suo incontro col padre Goffredo, un cavaliere che l'aveva abbandonato molti anni prima (Neeson). Un racconto così sintetico da non riuscire a creare alcuna empatia - al contrario de il Gladiatore - col protagonista e gli altri personaggi: la tensione è mantenuta solo dal ritmo, l'azione appare forzata, l'attenzione estrema per la composizione dell'inquadratura rischia il manierismo.
Ma col procedere della storia, diventa chiaro come a Scott e allo sceneggiatore William Monahan interessi prima di tutto il racconto della Storia. Anche più di quello del suo protagonista, la cui funzione è inizialmente quella di pretesto narrativo, e solo poi, a racconto inoltrato, diventa un punto di vista vivo sul tema della storia in cui lo spettatore può riporre la sua empatia. Una manovra che in qualsiasi altro film suonerebbe fallimentare, ma non ne le Crociate.
Il film di Scott scommette tutto sulla descrizione lucida della guerra. Tutta la tensione del racconto è generata dalla descrizione dei movimenti politici e sociali alla base del conflitto.
Scott manovra lo spettacolo con sintesi affilata, utilizzando l'iperrealismo digitale nelle battaglie e nelle scene di massa con lucidità e sapienza. Prende l'esperienza in materia del Peter Jackson de Il signore degli anelli e la asciuga, la focalizza al massimo. Ripulisce le sbavature, elimina le ridondanze e crea coreografie perfette ed emozionanti, dove Jackson si perdeva (anche se mantenendo una personale efficacia) nella carica dell'impatto animale della battaglia.
Ma questo anche perché ne le Crociate non ci sono orchi o fantasmi o tantomeno - al contrario di ciò che il cast potrebbe far sospettare - elfi.
Non ci sono nemmeno nemici o amici in senso classico: tutto ruota intorno ad un eterno gioco di potere, quando si ha fortuna giocato da intelligenti pensatori (il Saladino di Ghassan Massoud). Quando si ha sfortuna, da folli assetati di gloria e rivalsa (il de Lusignan di Marton Csokas).
Scott propone una visione di pragmatismo assoluto, da cui scaturisce la necessità del pacifismo. Di un pacifismo lucido e razionale, privo di retorica e parole d'ordine. Non vale la pena morire per un regno, che sia terrestre o celeste.
La guerra, agli occhi di Baliano, è inizialmente un atto di redenzione. Poi una questione d'onore. Infine, persa ogni retorica, di pura resistenza. E, comunque, mai di offesa. Ed è qui, nel confronto finale, forse sopra le righe ma non per questo meno vibrante, fra il fabbro e il re d'Inghilterra, che il pubblico può finalmente riunirsi con il protagonista. Scoprendo che l'empatia con Baliano, che all'inizio sembrava impossibile da sintetizzare (paradossalmente, visto il citato sforzo di asciugatura linguistica di Scott), andava invece conquistata. Come ha fatto Baliano con la sua stessa vita. Baliano è un pretesto che diventa personaggio, attraverso lo sviluppo di una forte consapevolezza sociale. Nel processo, coinvolge lo spettatore. Tale consapevolezza risuona infine come una dichiarazione politica argomentata, chiara, credibile, spettacolare. Molto più di quanto la maggior parte del cinema contemporaneo abbia il coraggio di proporre.