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Cloverfield
id., Usa, 2008
di Matt Reeves, con Michael Stahl-David, Odette Yustman, Jessica Lucas, Lizzy Caplan, T.J. Miller, Mike Vogel

Dentro la catastrofe
recensione di Piero D’Ascanio



Attenzione, heavy spoiler! La recensione contiene importanti rivelazioni sulla trama del film!

Il fatidico “18-01-08” è giunto, e il suo nome è Cloverfield. La data citata in partenza - giorno di uscita del film negli Stati Uniti -, è la formula rimbalzata un po’ ovunque nella rete fin dalla prima messa in cantiere dell’opera, assurta ad un precoce stato di cult non appena è trapelato dai crediti, alla voce produttore (e ideatore, e creatore ultimo) il nome di J.J. Abrams. Il Re Mida del piccolo schermo americano, ora personalità di punta della scuderia Paramount - per la quale si appresta a rinverdire i fasti di uno dei “franchise” storici, nientemeno che Star Trek -, nonché furbacchione da competizione, folgorato da un viaggio in Giappone ha deciso di mettere la mani sul “monster movie”, scomodando le ingombranti eredità di Re Kong, Godzilla e progenie assortita. Promotore abilissimo, utilizza il web da par suo, e in poche settimane è già una raffica di notizie, congetture, immagini, e tutta una teoria di “teaser” apocrifi scaricabili da siti altrettanto “fake”. Metabolizzata l’icona della Statua della Libertà decapitata - l’immagine che per prima ha fatto il giro del mondo: e aspettate di vedere la sequenza in questione… -, a rimanere aperta era ancora la caccia al “mostrone”: chi è, da dove viene, ma soprattutto “come” è. In merito, già pronte le immancabili “action figures”, battute dai siti di vendita on-line con tanto di foto oscurata fino all’uscita del film (ma l’attesa per il pubblico italiano si prolunga fino al 1° febbraio, quindi alla larga dai siti americani, dove la creatura alligna già dal 18 corrente mese).
Sgombrato il campo dalla fuffa promozionale, resta il film. Che, è bene dirlo subito, fa dannatamente paura, pur non indovinando la ricetta del capolavoro. Abrams - non ce ne voglia Matt Reeves, accreditato alla voce “director” (anche lui di incubazione televisiva), se in questa sede gli anteporremo la “mente” dell’operazione - imbraccia la più classica delle armi a doppio taglio fornite dal mezzo espressivo, e sceglie di giocare col “cinema diretto”(virgolettatura d’obbligo, a mo’ di rispettoso distanziamento dagli esperimenti di Jean Rouche e John Cassavetes). Quindi, con buona pace del narratore onnisciente e della “focalizzazione” spettatoriale, qui l’occhio della macchina da presa coincide tout court con lo sguardo di uno dei protagonisti. Infatti, entrando nella sinossi, il file denominato “Cloverfield” riguarda un evento documentato dalla registrazione di una videocamera digitale rinvenuta “nella zona un tempo conosciuta come Central Park” (così recita il cartello posto in testa alla proiezione). Il film è la registrazione, riprodotta così come il defunto “operatore” l’ha effettuata, tra l’altro utilizzando un nastro non vergine, per cui lo spettatore vede affiorare di tanto in tanto frammenti delle riprese originali, relative ad una giornata d’amore di due dei personaggi principali della vicenda, a loro volta amici dell’improvvisato cameraman; furbissima trovata, quest’ultima, rispondente tuttavia anche a criteri di mera fluidità narrativa, considerata la delicata modalità di focalizzazione “interna” scelta dagli autori: la mancanza di un resoconto in terza persona rende infatti l’escamotage necessario, e gli “inserti” assumono a tutti gli effetti lo statuto di flashback funzionale alla corretta comprensione degli eventi descritti. Purtroppo, e non poteva essere diversamente, è proprio qui - nel “manico”, si direbbe - che risiede anche il difetto principale del film. Metabolizzato il poderoso impatto sensoriale dell’incipit, e addentrandosi nella vicenda, si ha subito l’impressione di quanto potesse essere meglio gestito il sistema di informazioni ed emozioni da elargire ad uno spettatore totalmente impotente, il cui punto di vista è costretto a coincidere con quello di una videocamera piazzata in mano ad una vittima del disastro; in questo senso, le stesse tracce della registrazione precedente - quella relativa alla giornata dei due ragazzi -, avrebbero dovuto essere utilizzate non solo per informare, ma soprattutto per raccontare, opzione che avrebbe avuto l’effetto di render ancora più consistente il carico di suspence della storia. Peccato. Laddove invece la riuscita artistica dell’opera eccelle è nella rappresentazione visiva della catastrofe, ovviamente l’ambito in cui il rapporto tra il particolare punto di vista adottato e il profilmico ripreso crea il vero corto circuito emotivo del film. Intendiamoci, è di primaria importanza che la sospensione dell’incredulità raggiunga livelli ragguardevoli, pena la totale esclusione dal gioco: non è tanto a causa del principale responsabile del disastro rappresentato - un rettiloide alto come un palazzo di trenta piani che da solo vale il biglietto - quanto per il fatto che l’indefesso operatore non smette mai di riprendere il massacro che gli si squaderna davanti agli occhi, nemmeno quando è in procinto di finire egli stesso nelle fauci del mostro - ma è proprio in quel momento che la videocamera ci consegna un primo piano di “Clover” che è fra i momenti più forti del film, anche perché a ben vedere siamo “noi” ad essere sul punto d’esser divorati… Ebbene, il corto circuito di cui sopra è figlio del “dispositivo” stesso scelto dagli autori, in virtù del quale la visione spettatoriale si trova a tutti gli effetti “prigioniera” di ciò che al malcapitato Hud capita di riprendere con la sua handycam; niente uso consapevole di totali, dunque, né di primi piani, o di dettagli: niente linguaggio. Soprattutto, niente montaggio. Solo un video amatoriale, non filtrato, non costruito, “diretto” (ahi), che il più delle volte non concede al nostro sguardo di andare dove vorrebbe, considerati i notevoli impedimenti tecnici del caso (mai una ripresa stabile, prolungata, nitida, a fuoco, in bolla, e chi più ne ha più ne metta). Ovviamente, e va da sé, il meccanismo cela un grado di costruzione e artificio che è in realtà massimo. Ma non per questo l’assunto viene a cadere; al cinema, si sa, quel che conta è sempre l’effetto, non il procedimento seguito per ottenerlo. Ed è l’effetto di realtà che Cloverfield cerca e trova, il “realismo” della messa in scena - per dirla in un altro modo - l’obiettivo primo e ultimo dei suoi autori. Che poi si tratti comunque, appunto, di “messa in scena” - è bene tenerlo a mente -, è un dettaglio che perterrebbe a tutt’altro tipo di analisi.