Clean

La ricerca della pace
di Piero D'Ascanio

 
  id., Canada/Francia/Gb/Usa, 2004
di Olivier Assayas, con Maggie Cheung, Nick Nolte, Béatrice Dalle, Jeanne Balibar


Del ventennale cinema di poesia di Olivier Assayas - intellettuale raffinato, già critico dei “Cahiers du cinéma” - Clean rappresenta una sorta di “summa”: e sia detto in senso quanto mai lato, dal momento che non si parla solo di summa tematica, ma anche e soprattutto stilistica, oltre che ovviamente - trattandosi di un autore figlio della Nouvelle Vague - (auto)biografica.
Nel passaggio alla pratica cinematografica - nel lungometraggio, con l’ottimo Désordre, 1986 - il francese si portava già dietro quello che negli anni sarebbe rimasto un elemento cardine - tematico, stilistico - del suo essere metteur en scène: ci riferiamo alla musica, condotta con eguale pregnanza e sensibilità sia fuori che dentro la diegesi. D’altronde, era proprio facendosi guidare da suggestioni musicali d’epoca che l’autore infilava forse il suo capolavoro, quell’Eau froide che nel 1994 rendeva manifesta - complice la tematica adolescenziale - la filiazione più autentica di Assayas, quella dal cinema dei succitati “giovani turchi” dei “Cahiers”; in quel caso, la lezione stilistica dei maestri aderiva perfettamente alla materia trattata, complice il “tramite” registico di un cineasta ormai abilissimo nel cesellare emozioni in punta di macchina da presa.
Ecco, all’ottima sintesi espressiva e “poetica“ - l’accezione stavolta è quella letterale - dell’ultimo Clean concorre tutto questo. Con in più - ma anche questo era già in embrione nell’Eau froide - quella traiettoria itinerante così cara ad un’idea di cinema svincolata da confini territoriali, anzi in prima istanza interessata alle reazioni dell’individuo a contatto con un ambiente che spesso non è il suo; quella che poi è una delle direttrici fondamentali del cinema moderno, inteso come categoria teorica prima che storica.
La vicenda di Clean si snoda con naturalezza tra il Canada e l’Europa, seguendo la dura parabola esistenziale di Emily, musicista emergente costretta da drammatiche circostanze a ricominciare da zero: tossicodipendente, accusata dell’omicidio del compagno, privata del figlioletto affidato ai genitori di lui, l’attende un futuro tutto da costruire, e una scelta che potrebbe cambiare più d’una vita.
Mirabile la partenza del film: l’occhio “straniero” di Assayas si posa dall’alto sull’anonimo skyline industriale di Hamilton, cittadina di provincia canadese nella quale si consuma il fulmineo prologo della vicenda, trascinandoci subito dopo in mezzo al volume musicale del sotterraneo Grizzly Lounge, dove si esibisce il gruppo dei “Metric”; a seguire, la tragedia: Lee, il compagno d’arte e di vita della protagonista, viene trovato morto per overdose, e Emily, che gli ha procurato l’eroina, immediatamente incriminata. La macchina a spalla del regista la fa già da padrona, dichiarandosi subito come parte integrante della cifra stilistica dell’opera, condotta d’ora in avanti sotto il segno del movimento, sia esso dell’apparato filmico o semplicemente interno a quello diegetico (dopo la partenza canadese, la storia si sposta sull’asse Parigi - Londra). In seconda battuta, dall’incipit del racconto arriva chiaro allo spettatore il messaggio di un autore che intende esprimersi soprattutto attraverso i luoghi e il proprio modo di rappresentarli; è ancora cinema moderno, vissuto e creato on location, emanazione di ambienti che spesso “parlano” in luogo dei personaggi, o quel che è meglio si fanno carico di rappresentarne figurativamente le emozioni.
A loro volta, i caratteri in gioco sono lungi dall’essere fissati in fase di sceneggiatura; essi vi vengono piuttosto sbozzati, dato che la loro definizione avviene poi sul set, a stretto contatto con il regista, alle spalle le discussioni a tavolino e già dentro lo spazio del cinema.
Uno come Olivier Assayas, così interessato ad una costruzione “vera” del personaggio, trova in questo tipo di sinergia il cuore del suo processo creativo; del resto, in Clean egli viene splendidamente assecondato da un cast quanto mai azzeccato, a cominciare proprio dalla protagonista Maggie Cheung, già attrice e compagna di vita dello stesso autore francese, ma assurta all’Olimpo delle Dive grazie al furor poetico di Wong Kar-Wai. La stella di Hong Kong si carica sulle spalle con disinvoltura tutto il carico drammatico proprio della sua Emily, commovente figura di sopravvissuta alla ricerca di una nuova esistenza, e lo gestisce con impegno mirabile; dalla sua ha un’espressività mercuriale e una straordinaria fisicità. Ma se non ci dimenticheremo tanto presto della storia di Emily il merito è lungi dall’esser tutto della divina Maggie; le scene migliori del film sono infatti quelle in cui il suo sofferto personaggio viene fatto chimicamente “reagire” con quello del padre di Lee, splendido monumento ad un disincanto di matrice filosofica, indimenticabile nel momento in cui a prestargli rughe ed esperienza è un Nick Nolte assolutamente d’annata. Ecco, Clean raggiunge lo zenith della sua potenza e complessità proprio nel toccante confronto tra le due star. In chiusura, non ci sentiamo nemmeno più in diritto di imputare al film qualche passaggio un po’ macchinoso, che un attento analista a ben vedere troverebbe; il cinema è anche un fatto di cuore, e noi preferiamo ricordarci dell’ultimo, commovente guizzo d’autore che un ispirato Assayas ci regala proprio sul filo dei cento minuti.