City of ghosts
Genesi di un piccolo autore
di Luca Perotti

 
 
City of Ghosts, Usa, 2002
di Matt Dillon, con Matt Dillon, James Caan, Gerard Depardieu, Stellan Skarsgard


Se si potesse racchiudere il debutto alla regia di Matt Dillon in una sola parola, questa potrebbe essere “inospitalità”.
L’inospitalità di un film che respinge e devia l’occhio dello spettatore lasciandolo sbandare su di una superficie sdrucciolevole per effetto di una scrittura che tende alla dilatazione e all’offuscamento.
Un pellegrinaggio dalle mete imprevedibili e approssimative che scandiscono l’itinerario morale di Matt Dillon/Jimmy.
Già la location prescelta custodisce quella rarefazione prepotente e ipnotica che immediatamente definisce il film e lo colloca. Il teatro d’azione è una zona estrema e delimitata da contorni nitidi. Che sono poi quelli di un sogno popolato da personaggi complici del destino di redenzione del protagonista.
Il sud-est asiatico è luogo barbaro e, appunto, inospitale, deputato agli intrighi; un bordello in cui si agitano figure sfuggenti, ingoiate e digerite dalla palude. È culla di fantasmi e terra destinata al transito che respinge ogni approccio stanziale. Un luogo che porta con sé la specificità del rito di passaggio da consumare confinando il più possibile la nudità del proprio Io.
Matt Dillon si lascia manovrare dall’ambientazione cambogiana che si sposa perfettamente con la regia informe di chi ancora non ha le idee chiare. All’agnizione di Jimmy-personaggio può cosi fare da eco quella del regista alla ricerca di.un modello di cinema ancora da sviluppare.
La Cambogia diventa il serbatoio di una visionarietà profilmica che si lascia registrare; il grembo di una madre un po’ protettiva e un po’ puttana che accoglie lo sperduto eroe ancora estraneo a se stesso.
Lo schema del film (fuga-viaggio-ricerca-agnizione-redenzione) è ammantato dai misteri sbiaditi di un noir timido e rudimentale e si assicura la presenza di tutte le figure utili a Jimmy affinché il suo percorso iniziatico possa essere completo: l’amicizia fraterna dell’indigeno Sok, l’amore di Sophie, la disonestà dell’antagonista, Caspar. E ovviamente Marvin, padre vero o presunto che si nasconde e sfugge a Jimmy per due volte finché l’incontro risolutivo consegna il protagonista definitivamente, consapevolmente a se stesso.
La scoperta della frode assicurativa innesca la fuga di Jimmy da New York mentre il secondo raggiro, quello ordito a fin di bene da Marvin termina con la morte del passato, delineando la successiva redenzione che si compie con il lavaggio del denaro sporco donato all’amico fraterno e leale.
Dillon si appoggia a una schema mostrando tuttavia un convinto disinteresse (o incapacità) nell’accogliere chi guarda nella tessitura di una trama che gradualmente si rende sempre più indistinta. Ad emergere è invece l’ attraversamento di un varco buio, lungo cui far battere il ‘cuore di tenebra’ per giungere al traguardo: il ritrovamento e la perdita di una figura paterna dal profilo ambiguo, che protegge e inganna al tempo stesso.
Un film-viaggio che ha più senso e valore nel suo farsi piuttosto che nello scioglimento dei nodi o nella coerenza delle motivazioni. Dillon opta per una tematica archetipica e la svolge come una sommaria discesa agli inferi tenendo l’occhio fisso a quello che sembra aver scelto come padre putativo: Francis F.Coppola.
City of Ghosts diviene un minuscolo atto di ossequio all’autore di Apocalypse Now, nel suo lasciarsi volontariamente sommergere da un apparente disordine narrativo o nel procedere lungo invisibili linee guida conradiane.
In piccolo affiora la figura di un autore che proietta la sua ombra sul film fino a coprirlo, a sopraffarne la storia con la spavalderia ingenua del dilettante. Una vanità onesta e volubile che sembra manifestare lo sforzo stimolante, volontario o meno si vedrà, di pensare un cinema estremamente narcisista e misantropo passando per un impercettibile culto della personalità.