Borat

John Belushi is Dead
di Giulio Frafuso

 
  Borat: Cultural Learnings of America for Make Benefit Glorious Nation of Kazakhstan, Usa, 2006
di Larry Charles, con Sacha Baron Cohen, Ken Davitian, Pamela Anderson


Visto che, riguardo questa pellicola, si tratta di una derivazione ufficiale del personaggio televisivo ideato ed interpretato da Sacha Baron Cohen, procedere nell’analisi di Borat dividendola in due sembra in questo caso un’operazione appropriata, o quanto meno accettabile. Figura e lungometraggio risultano in questo caso due entità tra loro connesse ma non imprescindibilmente legate.
Partiamo dal lungometraggio diretto da Larry Charles, che possiede nella sua specificità alcuni difetti piuttosto evidenti: il primo è quello di una sceneggiatura che soprattutto nella parte centrale si inceppa ed inizia a girare a vuoto, mancante di uno sviluppo narrativo che permetta alle varie scene/gags – comunque spassose – di muoversi verso una meta precisa. Borat infatti ha un inizio interessante, una fine logicamente sensata, ma nessuna connessione drammaturgica capace di legarle insieme. L’altra incongruenza è nel non poter sostenere fino alla fine il discorso estetico dell’”instant movie”: come approccio al personaggio, l’idea di ingabbiarlo nella rete di una sorta di documentario reality è assolutamente giusta. Per i tempi e le scempiaggini comiche di Cohen/Borat la sensazione che “tutto accade qui e adesso” è un surplus di fondamentale importanza, e di sostanziale efficacia. Purtroppo però questa sorta di “gioco” che richiede allo spettatore una forte sospensione dell’incredulità – ancor più necessaria appunto quando si deve far passare la finzione per riproduzione dell’effettività del reale – non tiene fino in fondo, a causa di alcune costruzioni narrative e di messa in scena che rivelano troppo la “costruzione” che c’è dietro di esse.
Se dunque Borat non è un lavoro completamente riuscito a causa di alcune mancanze specificamente cinematografiche, rimane comunque un’opera a mio avviso importante, perché ripropone sul grande schermo un personaggio che regala nuova linfa al termine “comicità scorretta”. Se pensiamo al fatto che negli ultimi anni sono stati considerati i maggiori esponenti del politically uncorrect personaggi come i fratelli Wayans, ci si accorge immediatamente che il livello di salutare ed iconoclasta ferocia di Sacha Baron Cohen è esponenzialmente più elevato. Lo xenofobo, sessuomane, misogino Borat Sagdiyev possiede una natura così irrazionalmente limpida, oseremmo dire pura, da diventare una sorta di manichino/contenitore in grado di raccogliere in sé le peggiori contraddizioni che la cultura occidentale può regalare, o meglio con cui può fascinare. Sacha Baron Cohen dimostra di non aver alcuna preoccupazione nell’adoperare la sua “scatola magica” per gettare merda su usi, costumi, istituzioni e luoghi comuni del made in USA, arrivando in alcuni momenti a superare la soglia pericolosa del fine a sé stesso, ma rimanendo comunque fedele alla propria identità di disturbatore. La sua maschera funziona sotto molteplici livelli di lettura, non c’è che dire, ed allo stesso tempo riesce ad essere sempre divertente (qualità che in molti tentativi diretti in tal senso è andata scemando). Se cesellata da idee e soprattutto impalcature narrative adeguatamente preparate, quella di Borat potrebbe davvero diventare una delle figure comiche più rappresentative dei nostri tempi: è senza dubbio necessario un lavoro di cesellamento, improntato ad una stilizzazione – ben inteso, non di smussamento! – del “character”, un po’ come è successo a John Belushi, mossosi dagli esordi più grezzi fino ad arrivare all’impareggiabile Jake Blues di Landis. Molti, troppi critici con intento esageratamente celebrativo hanno già paragonato la comicità di Baron Cohen a quella di Belushi; a mio avviso ciò non è ancora neppure immaginabile: siamo lontani anni luce da un’icona che riusciva con la sola presenza scenica – a cui si univa un enorme bagaglio attoriale - a gettare una luce inquietante sul perbenismo ipocrita a cavallo tra ’70 ed ’80. Qui ci troviamo di fronte ad un comico intelligente, potenzialmente geniale, che sfrutta con sfacciataggine un momento storico e sociale che fin troppo bene si presta ad essere sbeffeggiato ed insultato. John Belushi se ne è andato, di sicuro troppo presto, e dopo venticinque anni non si sono ancora trovati gli eredi…