the Believer

La coscienza fra gli opposti
di Donatella Valeri

 
  id., Usa, 2001
di Henry Bean, con Ryan Gosling, Summer Phoenix, Theresa Russel, Billy Zane

L'orrore ha una propria logica e una propria razionalità. In nome di questa logica lucida si possono spiegare le peggiori aberrazioni e, per restare in ambito cinematografico, il Kurtz di Apocalypse Now ne è la più alta incarnazione.
Con uno schiaffo alle rassicuranti convinzioni che vogliono vedere nell'ignoranza e nell'oblio della storia il germe di quell'orrore (qui odierno) che è l'antisemitismo, Henry Bean dedica la sua prima opera registica (vincitrice del Sundance Film Festival nel 2001) alla storia vera di Danny Balint, un giovane ebreo americano, diviso fra l'appartenenza culturale e intellettuale al popolo ebraico e il suo opposto storico e drammatico, il nazismo. Ed è appunto questo orrore freddo e calcolato di Danny che ci colpisce violentemente e ci infastidisce: il razzismo anonimo si trasforma in "punizioni" mirate a persone reali e fisiche, l'antisemitismo prende forma in un discorso che diviene teorizzazione. Danny studia la Torah, legge e conosce alla perfezione l'ebraico. Il suo odio verso gli ebrei e l'accusa alla loro "passività" non sono il risultato di un istinto razzista, ma di una presa di posizione cosciente. Danny entra a far parte di un gruppo alto-borghese neonazista e affascina tutti i suoi componenti (tra l'altro come non vedere nella madrina di tale gruppo, Lina Moebius/Theresa Russel, l'incarnazione e lo stereotipo degli ufficiali delle SS donna, che con la loro glaciale superbia infliggevano le peggiori sevizie...). È attraverso la propria cultura e conoscenza del mondo ebraico che riesce a far carriera e divenire centro gravitazionale per la maggior parte degli adepti. La prima parte del film ruota intorno alla delineazione di questo personaggio, fra il documentario (con la marca voluta della "sporcizia" della pellicola e una fotografia sgranata) e la finzione. Questa prima parte è la più riuscita e fra tutte le sequenze spicca la lunga intervista a Danny da parte di un giovane giornalista, forse il momento più alto della pellicola, in cui viene esplicata la scelta neonazista.
La seconda parte del film cambia decisamente tono e fra le pieghe del racconto (e di quello che resta della scelta finto-documentaristica) inizia a insinuarsi il noioso atteggiamento esplicativo: l'accusa e la lotta privata che Danny conduce contro un popolo e il suo "lassismo" è in realtà una lotta contro sé stesso; la contraddizione del mondo esterno viene fatta propria. Una volta abbracciata la scelta più poetica, avremmo preferito che questa fosse mantenuta, senza che venisse operata un'ulteriore deviazione verso il procedimento "a tesi".