Avventure di un uomo invisibile

John Carpenter
di Marco Giallonardi


Frame stop:
John Carpenter

  Memoirs of an Invisible Man, USA, 1992
di John Carpenter, con Chevy Chase, Daryl Hannah, Sam Neill, Stephen Tobolowsky

Puro divertissement e film su commissione, Memoirs of an Invisible Man (memorie, e non avventure - differenza fondamentale che, ancora una volta, la traduzione italiana non si degna di considerare) è un gioiellino fantascientifico, insolito nella filmografia di John Carpenter, precursore dei tempi e al contempo affettuoso sguardo cinefilo: anche se confinato in una zona d’ombra della propria lunga e “di nicchia” carriera, il carpentiere del cinema può tornare a guardare al passato, ai suoi plurimi modelli di riferimento, proprio mentre si avvale delle più aggiornate tecniche digitali.
L’uomo invisibile racconta le proprie memorie da fuggiasco, inseguito dalla CIA non appena l’effetto dell’esplosione di cui è stato vittima inconsapevole viene scoperto: da manager qualunque e buon dongiovanni, Nick Halloran si trasforma nell’arma che i servizi segreti di tutto il mondo hanno sempre sognato. Ma soprattutto, da manager qualunque Nick si trasforma in astuto e geniale sopravvissuto, che con trucchi di ogni genere riesce a tenere testa ai propri inseguitori e a ricongiungersi alla propria amata Alice (una Daryl Hannah non ancora scomparsa per essere riabilitata da Quentin Tarantino).
E’ interessante sottolineare come Carpenter, seppure si mostri fino in fondo debitore verso l’originale di riferimento (classe 1933 e regia di James Whale, trama completamente diversa: l’invisibilità era cercata dallo scienziato protagonista, producendo in lui distruttivi sensi di megalomania), riesca con intelligenza a suscitare diversi ed interessanti spunti.
Primo tra tutti, il saper ricondurre l’incredibile vicenda di un uomo invisibile alla sua dimensione eminentemente pragmatica; così, il povero protagonista affronta problemi quotidiani dovuti alla propria bizzarra condizione: non riesce quasi mai a mangiare, prima impossibilitato a vedersi le mani e quindi a portarsi il cibo alla bocca, poi disgustato dall’immagine del proprio stomaco al lavoro, oppure è costretto a prendere botte in faccia dalla gente per strada, inconsapevole della sua presenza - solo, dannatamente solo, costretto a scappare e nascondersi incessantemente. Tutto ciò che credeva fosse affascinante, nella condizione dell’uomo invisibile, Nick è costretto a provarla sulla sua pelle, e a ricredersi.
Come dire, mito riciclato = distruzione del mito.
In secondo luogo, Carpenter riesce nell’impresa di far sembrare un attore normale il caratterista da National Lampoon’s Vacation Chevy Chase, dotandolo di una rispettabilità ed una capacità d’indagine psicologica del personaggio per lui inusitata (un po’ come accadrà a Jim Carrey con la svolta semi-seria di The Truman Show).
Terzo, con questo film il regista americano inaugura l’uso del digitale, ancora rozzo e non perfettamente assimilato all’immagine, adoperando tra i primi il fondale bluescreen - e riuscendo a razionalizzarne l’uso, dimostrando quanto possa risultare congeniale per trovate narrative particolarmente ironiche (licenza che pochi sapranno prendersi in seguito, sedotti dall’effetto speciale e non certo dal significato dello strumento).
Infine, ultimo punto da considerare, Carpenter si dimostra capace come pochi di portare avanti il proprio discorso antropologico anche quando è costretto a lavorare su commissione: la storia di Nick Halloran, strizzando l’occhio a tutto un genere cinematografico omaggiato dalla sobrietà stessa dei toni scelti dall’autore, racconta ancora una volta, in puro stile Carpenter, la dura battaglia tra realtà e fantasia e la necessità umana di trovare una dimensione di riconoscimento essenziale con cui poter sopravvivere al mondo, in questo caso nel drammatico momento della solitudine cui l’invisibile Chase è costretto, finalmente consapevole della necessità di “essere visti”.